È la grande ipocrisia moderna. Il tema che piace molto. Perché le scarpe rosse, di vernice e col tacco a spillo, sono un’immagine molto evocativa, che esprime efficacemente la libera passionalità che ogni donna dovrebbe poter vivere.
Ma difficilmente le donne che si alzano alle 4 del mattino – per lavorare nei laboratori di pasticceria, per aprire le edicole, iniziare il turno in un ospedale o anche le donne dedite a quel mondo totalmente sommerso che è quello delle casalinghe – indossano tacchi a spillo di vernice rossa; ma normalmente, quotidianamente, un paio di sneakers, scarpe basse e comode.
Non c’è organo d’informazione – tv di Stato o privata, giornale o sito – non c’è politico o parlamentare che non si sia esposto sul tema del Femminicidio.
Ho sempre pensato che fosse un grande risultato di civiltà, questo gran parlare del tema. Ho pensato che fosse importante evidenziare quando avvocati più o meno di grido rinunciavano alla difesa di uomini che si erano macchiati di questo crudele delitto.
Sono stata lungamente coinvolta da tutto questo fermento d’opinione, normativo e sociale, attorno al tema, provenendo anche da quella generazione che ha aperto i consultori in Italia e che si è battuta per i Diritti delle donne.
Il punto dell’assurdo è evidente: un uomo pone fine alla vita di una donna perché non tollera che – proprio in quanto donna – si permetta di lasciarlo.
Eppure, lo stesso uomo non avrebbe mai picchiato o addirittura ammazzato un amico “reo” di allontanarsi da lui per un altro giro di conoscenze, per frequentare un’altra scuola, o per unirsi alla comunità di un’altra Chiesa.
Il centro della follia non risiede nella “proprietà” o nel “vincolo della coppia”. Ma nel fatto che si possa perdonare ad altri, ma non a chi si considera inferiore a sé. Anche se, apertamente, la convinzione di tale disparità non viene ammessa mai.
Molto del mio impegno sociale, dunque, nei confronti delle donne – delle donne nella famiglia, delle donne nella carriera, nella politica, nell’arte, nella cultura – poggiava, fino a pochissimo tempo fa, su tale determinante assunto.
Oggi, però, mi trovo a vivere un dubbio importante.
Nel mio lavoro quotidiano di Consulente Tecnico di Parte, sono entrata in contatto con centinaia di casi in cui donne – che avevano avuto il coraggio e la forza di denunciare le violenze subite – difficilmente riuscivano ad essere restituite ad una vita normale, proprio a causa dell’atto scatenante della denuncia.
Avevano creduto allo Stato, alle parlamentari in piazza con le scarpette rosse e ai manifesti con scritto “Anch’io ho denunciato”.
E avevano fatto lo stesso, allora.
Non sapevano, però, che molte madri che denunciano poi perdono i propri figli. Inevitabilmente.
Ecco perché oggi sono combattuta.
Combattuta tra l’esortare le vittime di violenza ad assicurarsi che l’uomo abusante non le possa toccare più ed il metterle in guardia da altrettanta grave violenza: quella inflitta loro dalla Giustizia. Che le dovrebbe tutelare, proteggere, celebrare per il loro coraggio.
Sto seguendo, invece – in CTU – troppe donne che, per aver denunciato, si vedono dichiarare inidonee alla genitorialità perché “non avevano denunciato prima”. Un giudizio spietato e superficiale da parte di chi non conosce minimamente quel terrore che attanaglia una donna sola di fronte al proprio aggressore, quella paura che immobilizza, che ghiaccia, che rende la realtà troppo assurda per essere spezzata al primo schiaffo.
– Ho visto queste donne accusate di avere mentito, nelle proprie accuse, anche davanti a 18 certificati del Pronto Soccorso che ne descrivevano minuziosamente le contusioni e le fratture da percosse.
– Ho visto mamme accusate di aver rapito i propri figli, perché li avevano messi in salvo – trovando riparo in una Casa Rifugio – da un padre maltrattante e violento.
– Ho visto donne che, al temine di una CTU, sono state separate dai figli, portati uno in una Casa Famiglia, uno in un’altra struttura, sparpagliati senza alcun criterio, senza alcun appoggio, sostegno.
– Ho visto bambini e ragazzi a cui sono stati somministrati psicofarmaci perché urlavano alla notizia di doversi separare dalla mamma che avevano sostenuto nel denunciare le violenze del padre. Ed obbligati a continuare a vederlo, quel padre abusante, regolarmente.
La donna entra nella struttura. Il portone le si chiude alle spalle.
I bambini resteranno dentro, trasferiti altrove. La mamma sarà mandata via, straziata dal lutto immeritato della separazione; mentre l’uomo abusante è libero nella casa dove ha perpetrato le violenze. E in cui parenti collusi avevano lavato sapientemente ogni traccia di sangue.
“Potrei cantare i versi più tristi, questa sera”, recitava il grande Neruda. E questo sarebbe il primo istinto, per me.
Ma so di non potermelo permettere. Perché non posso tacere. Non posso limitarmi ad unirmi al coro di chi inneggia esclusivamente al coraggio delle donne che denunciano, senza metterle in guardia sul resto della storia. Anche se il rischio è che qualcuna ci pensi una, dieci volte di più, prima di denunciare.
Non posso omettere, né tacere.
Perché so anche che denunciare tempestivamente può fare la differenza e rendere a qualcuna di queste donne salva la vita.
Non posso cantare i versi più tristi, dunque. Devo cantare i versi dell’aiuto, della speranza, del continuare a creare una risposta e dell’esserci.
Perché le donne “coraggiose”, i professionisti e le professioniste – Pedagogisti Familiari, Avvocati, Periti, Giornalisti – possano insieme creare quel cambiamento culturale che deve iniziare fin dalla scuola dell’infanzia. Spiegando ai nostri bambini che siamo diversi ma, come esseri umani, assolutamente uguali.
Allo stesso tempo, dobbiamo continuare a dare supporto e a batterci fino allo stremo, ben oltre il mandato che riceviamo, perché queste donne e i loro figli abbiano realmente Libertà e Giustizia.
Chi oggi non capisce, se ne farà una ragione. Perché noi ci siamo.
E questi sono gli unici versi che sento di cantare, in questa giornata.
Vincenza Palmieri, Presidente INPEF
Ambasciatore per i Diritti Umani e per la Pace