“Tu a Cerveteri non lavori più”

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Una donna, abusata per mesi dal suo datore di lavoro, ci racconta come l’incubo non sia terminato nemmeno dopo l’arresto del suo aguzzinoDomenica 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza contro le Donne. E mai occasione poteva essere più propizia per raccontare una drammatica storia di sopraffazione, molestie, pregiudizio e soprattutto indifferenza. Una vicenda accaduta qualche tempo fa a Cerveteri. Città dove il comune a Sala Ruspoli ha organizzato per il 25 novembre lo spettacolo “Io ed Emma”, ideato dall’associazione Margot Theatre. Uno spettacolo teatrale che porta in scena il tema del femminicidio e che si fa forte del legame quasi fisico che il palcoscenico è in grado di creare con il proprio pubblico per sensibilizzare la platea su questo tema sempre più attuale e scottante. Quella che vi raccontiamo, e che in parte conoscete amici lettori, è una vicenda di molestie e violenza sessuale di un datore di lavoro ai danni di una propria dipendente, un fatto per il quale c’è già stata una sentenza di primo grado di condanna a tre anni di reclusione. In questi giorni dovrebbe essere reso noto il verdetto del ricorso in Appello, la questione probabilmente si chiuderà in Corte di Cassazione. Ma non è l’episodio in se che vogliamo focalizzare, la giustizia farà il suo corso con i tre gradi di giudizio. Ci interessa invece puntare l’indice su cosa è accaduto, anzi non è accaduto, alla vittima delle violenze nel periodo successivo al drammatico accadimento. A Cerveteri, così come in tutta Italia, da tempo si organizzano lodevoli iniziative contro la violenza sulle donne, si allestiscono eventi per sensibilizzare l’opinione pubblica, si invitano le vittime delle molestie e delle percosse a denunciare sempre i loro aguzzini. Tutti a riempirsi la bocca con la moderna frase Me Too, il movimento femminista che ha permesso di smascherare abusi fisici e psicologici a tante donne famose e non del mondo dello spettacolo e sui posti di lavoro. Il problema nasce quando dalle belle parole si passa alla vita reale. Laddove, specie in piccole realtà di provincia, la vittima invece della solidarietà della comunità in cui vive con i propri parenti, riceve insulti, minacce, pregiudizi e zero aiuto sia morale che materiale. Nella bruttissima vicenda che vi raccontiamo abbiamo omesso molti particolari per motivi comprensibili di tutela nei confronti dei diretti interessati, sarà però sufficiente leggere le parole della vittima degli abusi per comprendere come troppa gente sia solidale solo a parole. Del resto, nella società di cartapesta dove sui social tutti si sentono leoni e pontificano e poi scappano nella vita reale, ci potevamo aspettare altro? Involontaria protagonista di questa storia è una donna che chiameremo Giulia (il nome è di fantasia), vittima per oltre tre mesi, come spiega la sentenza di primo grado, di violenza sessuale ed abusi da parte del suo datore di lavoro nel retro dell’attività commerciale. Tre mesi di inferno nei quali la malcapitata era terrorizzata tanto da non trovare la forza di denunciare il suo aguzzino. Bloccata anche dalla paura di perdere il posto di lavoro, peraltro in nero e senza contributi e copertura assicurativa, con cui manteneva a stento la famiglia.

“Ero come paralizzata – racconta Giulia – lo imploravo di smettere, lui mi rispondeva che mi voleva possedere sin da quando mi aveva conosciuto la prima volta. Ogni volta che arrivava nella cucina nel retro bottega dove stavo pulendo erano abusi sessuali di ogni tipo. Nella sentenza di primo grado sono narrate tutte le angherie che ho dovuto patire. Con la forza della disperazione ho denunciato tutto alle forze dell’ordine che hanno installato segretamente le telecamere con cui è stato inchiodato il mio aguzzino e condannato in primo grado. Ho perduto il lavoro, ma il mio incubo è finito. O così speravo”.

E qui arriva la parte meno nota della faccenda, nessun reale lieto fine per questa malcapitata donna che ha avuto il coraggio di mandare in galera il suo violentatore. Amici lettori, davanti alla forza d’animo di Giulia cosa vi sareste aspettati da una comunità che si riempie la bocca di iniziative contro la violenza sulle donne? Solidarietà, vicinanza ed affetto? Invece no.

“Sin dai primi giorni dopo l’arresto del mio aggressore – prosegue Giulia – sono stata oggetto di illazioni, sospetti, offese e perfino minacce. Mi attendevo solidarietà, ho ottenuto invece critiche, in molti ancora oggi mi dicono che ho sbagliato, che ho sfasciato una famiglia, che dovevo stare zitta. E qualche commerciante mi ha anche detto in faccia che a Cerveteri non troverò più nessuno disposto a darmi un lavoro. Insomma, c’è gente che afferma apertamente che la colpa di quanto accaduto sarebbe mia, che dovevo subire in silenzio. Non mi aspettavo gli applausi, ma nemmeno tanto astio per aver rotto il muro della paura e del silenzio. Speravo che il mio gesto permettesse a tante donne molestate sui posti di lavoro di uscire allo scoperto ed inchiodare gli aguzzini alle loro responsabilità. Sono amareggiata e delusa, è inutile parlare di lotta alla violenza di genere ed alle molestie se poi all’atto pratico tutti si girano dall’altra parte. Nemmeno da parte dell’amministrazione comunale, che annuncia sempre iniziative a favore delle donne come la recente installazione delle panchine rosse nei giardini pubblici, sono arrivati mai segnali di concreta vicinanza e solidarietà”.

Ma Giulia è una che non molla, non è scappata da Cerveteri, prosegue la sua battaglia.

“Ancora oggi che mi parlano alle spalle, giro per le strade a testa alta. Io sono la vittima, non il carnefice, non posso arrendermi, sarebbe ingiusto anche nei confronti della mia famiglia che ha sofferto tantissimo per questa vicenda. Io da Cerveteri non andrò via, sono altri che debbono vergognarsi per quanto accaduto. Spero che le mie parole possano essere raccolte soprattutto dalle donne. Denunciate sempre i vostri molestatori, il silenzio favorisce la sopraffazione. Così come l’indifferenza ed il pregiudizio”.

Che altro aggiungere, amici lettori?