Storia ed opinione

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Le nuove responsabilità tra pensiero e linguaggio

di Antonio Calicchio

Tutto oggi è un po’ più possibile. Si è a tal punto banalizzato vita e morte che può accadere anche per la storia, la quale parla sempre più da lontano e vi è chi propose persino di dimenticarla.

La barbara strage che il covid sta perpetrando fa capire che nella vita della umanità vi è un passato che non è mai passato del tutto, e il ricordo e la dimenticanza spesso non ne percepiscono il senso. Ecco il motivo per il quale è da condannare ogni forma di indifferentismo, burocratico, civile, politico.

L’umanità si è ingrigita a causa della tragica esperienza del virus. Approfittando di questo periodo, bisognerebbe tenere sempre sotto gli occhi le nostre esistenze, individuali e collettive, insieme al tempo che scorre inesorabilmente, per la coscienza nostra, oltre che delle prossime generazioni. La speranza è che questa fase della nostra storia, umana e sociale, possa destare la consapevolezza nei confronti di ciò di cui intende avvertirci rispetto non solo al presente, ma anche e soprattutto al futuro.

Per essere, occorre ormai apparire. E coloro che non hanno niente da mostrare, una merce, un corpo, un’abilità, un messaggio, pur di apparire e di uscire dall’anonimato, mostrano la loro interiorità.

Coloro che non emanano una carica di esibizione e di attrazione più acuta degli altri, coloro che non si mettono in mostra e non sono illuminati dalla luce della pubblicità, non hanno la forza di stimolarci; di loro neanche ci accorgiamo, il loro richiamo non lo avvertiamo, non lo riconosciamo, non lo “consumiamo” e, dunque, “non esiste”.

Nel contesto di una società consumistica in cui le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate, si diffonde un costume che contamina anche il comportamento dell’uomo che ha la sensazione di esistere solamente laddove si ponga in mostra. Pertanto, fra uomo e merce il mondo è divenuto una “mostra”, una esposizione pubblicitaria che è impossibile non visitare giacché comunque vi siamo tutti immersi.

Ed allora: “che cosa significa pensare”, si domandava Heidegger, nell’anno accademico 1951/52, presso l’università di Friburgo. Pensare significa sottrarsi all’adesione acritica per aprirsi alla domanda, vuol dire interrogare le cose al di là del loro significato abituale reso stabile dalla pigrizia dell’abitudine. E i libri servono proprio per pensare, assai più che per sapere.
A questo punto, dunque, i ragazzi sentono di non avere futuro e vivono in un eterno presente di nascosto dai loro genitori coi quali omettono di comunicare. Vivono, cioè l’assoluto presente in una diretta continua ed ininterrotta ventiquattro ore su ventiquattro, essenzialmente perché se tentano di guardare oltre, si rendono allora conto di non avere alcun “progetto” da realizzare ed attuare. Essi non hanno un futuro che li aspetta. E quando non si riesce a vedere il futuro, allora sorge la dimensione del nichilismo in cui si cade inevitabilmente.

Come riteneva Nietzsche, manca lo scopo, manca la risposta al perché bisogna stare nel mondo. Quando il futuro non è una promessa, ma diviene imprevedibilmente una minaccia, esso allora retroagisce come demotivazione. E, quindi, per quale ragione impegnarsi in qualcosa, se il futuro non promette nulla o promette il nulla? I valori si svalutano, tant’è vero che oggi i ragazzi non hanno valori coi quali identificarsi e vivono in una condizione di perpetua disidentità in conseguenza della mancata educazione emozionale nell’ambito tanto della scuola, quanto della famiglia. Ed infatti, sarebbe indispensabile una formazione specifica per i docenti da reclutarsi sulla base di criteri anche emotivi e non soltanto conoscitivi. Essi, a loro volta, si occupano e preoccupano scarsamente dell’aspetto emotivo dei loro alunni, analogamente ai genitori di questi ultimi. Oggi – non di rado – l’apporto genitoriale è insignificante non avendo i genitori più tempo per rispondere alle domande – filosofiche – dei bambini, ai loro “perché”; e le loro parole mancate vengono sostituite dai giocattoli. Ma l’immediato soddisfacimento fornito dai giocattoli evita ai bambini di annoiarsi. Ed invece, essi dovrebbero trovarsi in situazioni di noia per poi elaborare creativamente strategie di divertimento.