Solo me ne vò per la città

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© Arsial Banda degli ottoni cervetrani

Solo me ne vò per la città

di Angelo Alfani

Al Paese, solo qualche decennio fa, tutto girava attorno a poche cose: la strada, la scuola per gli obbligati, e la Chiesa nelle feste comandate riempite, quando ci stava il Patrono o qualche Autorità, dal fragore della banda degli ottoni cervetrani.

La strada era un grande teatro all’aperto, “un emporio, una continuazione della casa e un’anticipazione della campagna”.

Ancor prima che i rondoni si levassero nell’azzurro, fino a quando tornavano ad acquattarsi sotto tegole brucianti, la strada era un viavai continuo di persone, di muli, cavalli, somari, carretti che si recavano a coltivare le centinaia di orti indispensabili per la sopravvivenza, gli ulivi e le vignette, le grandi distese a grano di lontani e disattenti proprietari.

Prima dell’alba era consuetudine sentirne i passi, le voci, saluti distratti, ordini secchi al mulo o all’asino, un “poggia là” alle quattro vacche che accompagnavano i cervetrani ai campi. I segni del passaggio di questi erranti a quattro zampe restavano evidente sul selciato fino a quando il carretto dello scopino li toglieva di mezzo.

Si ricorda Quarto, un omone da un quintale e rotti di bontà e potenza, sempre accanto alla bicicletta.

© Arsial Parcheggio_libero_Vignarola_zi Antonio e Felicetta

La montava solo in discesa facendosi compagnia cantando: “Oggi è una bellissima giornata, e me ne vado a zappettà”. Al ritorno la spingeva su per la salita, col suo carico di fascine, con due dita piazzate sotto al sellino.

Richetto, col suo marraccio a penzoloni, tornava strafatto di sudore dopo una giornata passata a tagliare canne che vendeva per costruire incredibili reticolati per ortaggi rampicanti.

Noncurante dei sampietrini che al tramonto facevano esaltare la pietra focaia, rendendo l’aria pesante e il grigiore degli edifici che si allineavano ai lati più cupo, indossava sempre una pruriginosa ed erta canottiera di lana fitta.

Le sere che precedevano le feste dei giorni lunghi, gruppi di due o tre, ma più spesso a frotte per farsi coraggio vicendevolmente, la gioventù stravagante solcava le strade allungandosi in piazza ed ai giardini.

La vita gli scalpitava dentro come a puledri liberi sui montarozzi; le risse, coi malcapitati forestieri a caccia di femmine divampavano da un nonnulla. Sul tardi, quasi improvvisamente, il pieno diventava vuoto: le donne per prime, seguite da qualche ubriaco che, sbattendo da muro a muro nei noti vicoletti, riusciva comunque ad infilà il portone di casa. Di seguito i padri, poi i figli ed i nipoti. “Nella deserta quietezza notturna” un solitario intonava. “Solo me ne vò per la città, passo tra la gente che non sa”.

Parliamo di un Paese in cui parecchi dei suoi concittadini avevano una percezione del posto in cui erano nati, pasciuti e cresciuti talmente forte da ritenerlo il pianeta intorno al quale ruotava l’intero Universo.
Tanti i racconti che esemplificano questa convinzione, che ingigantiti, sono divenuti verità biblica.

Si racconta di un cervetrano militar esente che mai si era allontanato da casa se non per recarsi al mezzo rubbio di terra al Sorbo.

Venne chiamato dal giudice di Civitavecchia a testimoniare su uno scavalco di pecore che avevano compromesso il raccolto dei cimaroli.

Ad uno sbrigativo giudice, curvo sulle carte, dovendo dare le generalità rispose:

“Me chiamo Terzo, signor avvocato!”

“Prego giudice, non avvocato! Luogo di nascita e residenza”

“So di Cerveteri avvocà: abbito alla Boccetta. Ci hai presente ’ndo tiene li telefoni Palmira!? Ecco tu scendi giù per la discesa, alla terza pii a destra. Non il terzo portone, lì ce abbita Marietta,er portone appresso”.

Era solo ieri.