di Angelo Alfani
Luglio dei primi del settanta: pomeriggio torrido con andazzo messicano.
La mejo gioventù, di ritorno dal litorale color carbonella, sgazzosava ai tavolini lungo via Roma.
Rari nuclei parentali, allargati fino ai cugini di terzo grado, sgranocchiavano chicchi di ghiaccio grossi come grandine, dai colori arancio, verde, giallo canarino. La signora Colomba, in tenuta estiva, esibiva chiacchiere all’angolo di via Agyllina: come sempre.
L’ urlo: Ecco Vitone! che annunciava l’arrivo pomeridiano della seicento del medico condotto, con conseguente ammucchiata delle sedie e dei tavolini, era già stato lanciato da un pezzo. La pennica ed il tedio avevano preso il sopravvento su tutto e tutti. Ma proprio nel momento del trionfo di Morfeo giunse l’angosciante urlo: Correte, stanno a scappà li serpenti da li merli!
Il primo ad accorgersene era stato Marzietto che, dal balconcino di casa, impiccata proprio sopra i merli, aveva notato un andirivieni di grassi e lucidi frustoni uscire e rientrare, come in processione, dagli infiniti buchi della parete a tufi. L’urlo l’aveva lanciato la mamma, bianca come un lenzolo, alla vista della lunga fila di panzette bianche viranti al giallino e zigzagari irritati.
Più svelta della polvere a tramontana, una folla, ben presto sgomitante, si radunò nella strettoia che dall’arco immetteva nella piazzetta della chiesa.
Da anni ripetuti avvistamenti del mostro del Manganello, boati su serpenti ingoianti abbacchi, su pastora vacche lunghi uno sproposito, su serpenti con i piedi alla Banditaccia, avevano vivacizzato i capannelli degli sfaccendati in giubbotto di renna. Ma mai nessuno aveva osato fantasticare su possibili presenze di centinaia di serpenti nel cuore del Paese.
La decisione delle Autorità di togliere l’edera centenaria, le patatare, i roghi che inverdivano le mura della parete della casa di Amerighetto, avevano di nuovo mostrato al sole il tufo, e liberato decine e decine di serpenti, disturbati dopo anni di assoluta tranquillità.
Il primo cittadino che sulle emergenze ci campava, co’ ‘na punta di ruffiani appresso, decise di transennare via Santa Maria, all’altezza di Merindo, impedendo di fatto l’ingresso alla piazza, e convocò, per la settimana successiva, il solito Consiglio comunale straordinario.
L’andazzo fu sufficiente all’Arciprete Tazzari per capì l’antifona. Mandò Adriano, il più fidato dei chierichetti, ad avvisare Giovanni la guardia di recarsi immediatamente in canonica.
Alla presenza della pratica Minicuccia convennero che, se si fosse lasciato in mano la faccenda agli Amministratori, si sarebbe messa a rischio la continuità delle funzioni religiose nella chiesa madre. O si trovava una immediata soluzione o si sarebbe sfilato in processione per le vie del paese, con paramenti neri e gialli.
Già altre volte Don Luigi aveva forzato la politica a decisioni non più rinviabili per il bene della collettività. L’arciprete romagnolo nonostante fosse già sulla settantina, grazie all’imponenza fisica, alla faccia severa, incuteva rispetto e timore, perfino quando era ben disposto, di solito appena “magnato”.
La mattina dopo, sul presto, un giovanissimo Nicolino la guardia si appostò sui merli, col fucile a piombo cinque, dando inizio alla mattanza dei serpenti.
“Nicolì mo’ bisognerebbe snidà via pure quelli che stanno nel palazzotto. E lì so cazzi!” si sentì dire da più di un paesano.
Per giorni e giorni, sotto gli occhi di una pipinara di ragazzini e di curiosi, il tiro a segno proseguì dalla mattina fino al comparire della luna sopra al loggione del Palazzo.
Il numero dei frustoni abbattuti aumentò esponenzialmente col passare dei giorni così come di quelli che riuscirono a svignarsela verso il Manganello.