Rosario Livatino, martire della giustizia e indirettamente della fede

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Così S. Giovanni Paolo II identificava questo giovane magistrato, armato della fede in Dio e nella giustizia.

di Antonio Calicchio

In occasione dell’anniversario della scomparsa di Rosario Livatino, scomparsa avvenuta il 21 settembre 1990 che ha condotto alla sua beatificazione nel 2021, sottopongo preliminarmente all’attenzione dei lettori una questione di ordine filologico, nel duplice senso di scienza della parola e di amore al Logos, la Verità, oppure alla logica.

Si tratta di due brevi passi di due autori classici, entrambi romani: il primo, scrive in latino, il secondo, in greco. Il primo passo è di un legato con potestà consolare che esercitava, pertanto, pure quella giudiziaria: “pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri” (Plinio il giovane a Traiano). Traduco “pertinaciam et inflexibilem obstinationem” in “caparbietà e inflessibile cocciutaggine”; altri parlano di “gente dura e ostinata”, di “ostinazione, tenacia, pazzia”; altri ancora traducono in “pertinacia e inflessibile ostinazione o follia”.

L’altro autore classico, Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, in uno dei “colloqui con se stesso”, annota questa riflessione: “mé katà fìlen paràtaxin”, da tradurre come “semplice spirito di opposizione”; altri dicono “sforzo pervicace di volontà”, altri ancora “sfrontatezza”; ma si potrebbe anche tradurre: “non secondo il sistema comune, ordinario”, oppure si potrebbe interpretare: “senza connessioni o coordinazioni con poteri, occulti o palesi, più o meno legittimi, senza ipotassi, né paratassi, cioè senza sottomissioni o connivenze”.

Gli “affetti da frenesia”, da caparbietà o da inflessibile cocciutaggine, la gente dura, ostinata, pazza e folle, sfrontata, di pervicace volontà, non secondo il sistema comune, ordinario, senza sottomissioni o connivenze, per la mentalità di un burocrate adulatore, panegerista di Traiano, come Plinio il giovane, o di un ricercatore della “apatheia”, come era Marco Aurelio, i pervicaci, i cocciuti, i pazzi, i folli erano i martiri cristiani, coloro che agivano non secondo la prassi ordinaria di farsi gli affari propri, di incurvarsi come giunco perché passi la piena, di fare lo stolto per non pagare la dogana, che si accanivano per un nonnulla: gettare qualche grano di incenso su un braciere ardente, innanzi alla muta statua di un imperatore.

E quanti alla notizia del martirio del giudice Livatino – e di parecchi altri – non esclamarono: “Chi glielo ha fatto fare? Vivi e fa’ vivere! Mondo è stato e mondo è! Navigare contro vento è tempo perso!”.

Allineati e coperti, si diceva un tempo.

E tale è la filosofia di tanti.

La grandezza morale e l’eroismo di Rosario Livatino furono non solo la morte che non voleva e alla quale, d’istinto, tentò di sfuggire, ma anche ciò che la preparò, anzi, la determinò: non camminare secondo lo schieramento di molti: “mé katà paràtaxin”, la sua riottosità incoercibile, l’ostinazione, la pervicace volontà a non piegarsi al compromesso, il suo spirito di opposizione alla prassi comune del barcamenarsi, della mediocrità che reputa di trionfare se salva le apparenze, di trarre profitto economico o carrieristico, coltivando amicizie, offrendo appoggi per trovare sostegno, realizzando compromessi funambolistici, vendendo l’anima per acquistare prestigio, fama, denaro e, persino, notorietà di una intervista, specie se televisiva.

Se, come scrisse S. Agostino, “martires non facit poena sed causa”, cioè fa i martiri non il supplizio, ma il suo motivo, gli scritti del giudice Livatino rivelano il pensiero che venne applicato, con razionalità, nella vita quotidiana, ossia il motivo che generò il suo martirio, in quanto egli consapevolmente si contrappose alla persecuzione, non di un imperatore romano, o di un dittatore moderno, bensì di un potere e di una mentalità diffusi: il “particulare”, o il fare gli affari e gli interessi propri. Questo affrontò per amore non soltanto della giustizia che amministrava, ma di quella che abitava nell’intimo del suo io e che trasferiva nella inflessibilità della sua condotta di magistrato e di cristiano integro.

Ancora S. Agostino afferma che “i veri martiri sono quelli di cui il Signore disse: ‘Beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia’ “.

Nel commentare l’apparizione del primo cavaliere dell’Apocalisse: “Ed ecco apparve un cavallo bianco e Colui che lo cavalcava aveva un arco e gli fu data una corona e, poi, egli uscì vittorioso per vincere ancora”, Manuel Jimenes Bonhomme, accettando l’interpretazione della maggioranza degli autori che vi raffigura il Giudice e il giudizio divino, soggiunge: “In questo mondo si incontra raramente la giustizia, perché è molto più impegnativa dell’amore. La giustizia, infatti, non beneficia della complicità della carne, di cui si diletta l’amore: la giustizia è una passione che consuma e scarnifica. Se l’amore è cieco, la giustizia deve, invece, tenere gli occhi bene aperti. L’amore ha lo sguardo rivolto indietro, la giustizia in avanti. Per noi che apparteniamo alla massa, che siamo parte integrante di questo mondo, giudicare è una azione difficile: la vera giustizia implica la non partecipazione al male. Pertanto, può venire solo da Dio”.

Il giudice Livatino, rigoroso e nemico di qualunque compromesso, distante da protagonismi esibizionistici, con la severità della sua concezione e pratica di vita, visse un’ascesi e un continuo sforzo di accostamento a Dio, come certificano quelle giornaliere visite a Cristo Sacramentato, attestate da tanti, le brevissime frasi di meditazione e di preghiera, nonché quella sigla misteriosa rinvenuta nelle sue agende “STD” e sciolta in “Sub Tutela Dei!”. Per un giurista, “tutela” vuol dire non solamente protezione, guardia, sorveglianza, difesa, ma pure chiusura a qualsiasi riferimento e ad ogni fine che non fosse Dio – né vantaggio personale, né ricerca dell’utile, né quel groviglio di “relazioni sociali” che sovente incatena, impastoia la giustizia – mantenimento e supporto da parte di Dio. Ed infatti, unicamente in Lui trovava quella costanza e quella fortezza che lo preservavano dal contagio con numerose patologie sociali, dal compromesso e dall’oscillazione nel valutare giusto e ingiusto, e, perciò, implicavano “la non partecipazione al male”, avvicinandolo così, quanto più possibile, ad un uomo, a quella giustizia che “può venire solo da Dio”.

Questa è la ragione fondamentale della sconfinata attenzione, soprattutto nel mondo giovanile, nei confronti di Rosario Livatino. Come noto, a lui sono state intitolate scuole, biblioteche, palestre, piazze, strade. Intorno alla testimonianza della sua vita sono stati dedicati scritti, monografie, poesie, disegni: la sua morte esprime l’impronta di una forza che trascende la morte stessa!

Noi viviamo in una società che esalta il pensiero debole, la morale debole, il conformismo, l’esteriorità, la cura della immagine; ma in essa società esistono, altresì, progetti educativi deboli, esiste una fede debole, ovverosia quella del credente non praticante che, poi, pratica la superstizione e la menzogna. E da Livatino, i giovani sentono di avere una risposta.

Essi vedono l’interiorità, elemento centrale per l’uomo, svelarsi nelle idee chiare, nelle scelte della coscienza, nella dedizione al proprio dovere, vedono i frutti di una formazione solida, radicata su una diligenza a studiare bene tra intenzione e azione.

Vi sono azioni che possono essere delineate in maniera completamente diversa a seconda dell’intenzione: un simile scandaglio della persona e della sua moralità rende Livatino un punto di riferimento, suscitando attrazione, il cui esempio è illuminante per comprendere come si possa costruire un discorso serio sull’uomo.

Alle sue esequie, Mons. Carmelo Ferraro, Vescovo di Agrigento, ebbe a dire: “Siamo, qui, vicini ai genitori, per testimoniare loro venerazione e gratitudine, per aver educato nella fede dei grandi ideali un figlio che è assurto improvvisamente a testimone di quella rettitudine morale che è l’onore del popolo italiano”.

Da ciò scaturisce una questione essenziale, vale a dire che la famiglia deve impegnarsi nella educazione; i genitori non devono demandare ad altre figure l’ufficio di formare delle personalità. Giova, quindi, sottolineare che se l’allora Papa S. Giovanni Paolo II, ad Agrigento, intervenendo con infinita emozione, non mancò di perorare la causa della vita e di pronunciare parole che sono risuonate e seguitano a risuonare nel mondo, lo si deve all’incontro coi genitori di Rosario Livatino, incontro da cui restò profondamente sconvolto: un figlio unico, una stella per i genitori, poi, il buio totale. Tant’è vero che un artista ha prodotto, attraverso il ferro, un monumento in cui si vede il Papa che parla e Rosario Livatino steso per terra, ad indicare proprio il rapporto che è emerso da quel sangue innocente versato.

Uomo debole, pensiero debole, morale debole, educazione debole, personalità deboli, società debole.

Oggi, occorre leggere gli stereotipi correnti, ossia quelli dell’intimidazione, della prepotenza come gesti di disumanità che in nessun altro modo vanno classificati se non in termini di attentati alla democrazia, alla legalità, alla comunità, alla famiglia, alle persone libere.

Se, da un lato, è compito degli uomini di cultura studiare gli stereotipi da squalificare e da condannare, d’altro lato, appare assolutamente necessario considerare un triplice dovere per tutti:

I)imitare, con ogni determinazione, la coerenza morale del giudice Livatino, nel campo specifico in cui ciascuno opera;

II)con ogni solerzia, riconoscere il suo martirio, civile e cristiano, sia come prezioso valore di enorme fecondità per la rigenerazione morale e per il progresso sociale e culturale del nostro popolo, sia come coronamento di una esistenza fedele, limpida e responsabile, vissuta sino alle estreme conseguenze, analogamente a Tommaso Moro, cancelliere di Inghilterra, decapitato per non aver ceduto al capriccio del suo re;

III)”impegnarsi contro tutte le culture criminali, contro ogni forma di inquinamento della politica, mediante l’innesto di interessi particolari, di pratiche occupatorie delle istituzioni, di trasformazione di diritti in favoritismi, di subordinazione dell’interesse generale agli interessi individuali o di partito, di strumentalizzazione politica e mediatica degli avvenimenti”, come recita lo Statuto dell’Associazione “Amici del giudice Rosario Angelo Livatino”.