“UNA CALDA DOMENICA DI NOVEMBRE
RIMANDA ALLA MEMORIA NOSTALGICI LUNEDÌ DI PASQUETTA”
di Angelo Alfani
Domenica pomeriggio il piazzale della Banditaccia e le vie che da lì si diramano, apparivano come un immenso parcheggio. Medesima la visione nel piazzale del grande tumulo. I nostalgici del tufo che da decenni, giorno dopo giorno, lunedì compreso, timbrano il cartellino raggruppandosi sotto i pini oramai stremati da incuria e malattia a ridosso della biglietteria, con somma meraviglia continuavano a contarsela: “A rega’ io ‘n pienone così nun me lo ricordavo! Pare che Roma ha tracimato.”
Centinaia di persone, zaini, bastoni, figli, carrozzine e cani cercavano di evitare il controesodo lungo le strade impolverate dirette ai grandi Tumuli e nel tratto iniziale della via degli Inferi. Il sepolcreto del Laghetto, martellato a sbalzi e saltelli come ai tempi di Lerici, pieno come un uovo, fino a ridosso del dirupo che sprofonda nella stretta valle in cui scorre il Manganello. I più incaponiti, trascinandosi dietro suocere-zavorra:“namo ma’, se te fermi a raccoje la cicoria ce famo notte!”, si erano allungati fino a raggiungere, da dietro, il nuovo cimitero. “Nun ve preoccupate, vi vengo a riprende con la macchina. Tranquilli, non frignate!” così giovani padri cercavano di riconsola’ piccoletti esausti.
Non dissimile la situazione all’uscita dei due tratturi che, dalla Bufolareccia, conducono alle Cascatelle. Perfino il semidistrutto Centro storico ha vissuto una giornata commovente. Insomma questa calda domenica di Novembre rimandava alla memoria nostalgici e favolosi lunedì di Pasquetta. Certamente la paura di essere di nuovo“fatti prigionieri” da imminenti provvedimenti più restrittivi atti ad affrontare il secondo tempo della difficile trasferta sul campo del Covid-19, sta alla base di un simile sciamare. Ma trattasi di una ragione contingente. Sono invero molti gli studi che dimostrano che la necessità di vivere più “naturalmente”, di ritornare alla terra, di riconquistare, abitandoli, i luoghi e le zone interne del nostro paese destinati altrimenti a morte sicura, sia da darsi per acquisita, resa oggi più stringente come contrasto alla pandemia odierna e a quelle che ci aspettano in futuro. Le lunghe file agli ingressi dei moltiplicatisi frantoi di neofiti del coltivar olivi, lo zappettare pratini e piantar canne su cui far avvinghiare pomodori e fagiolini, da parte di ortolani non più solo domenicali, sono dimostrazione di quanto la terra sia divenuta nuova attrazione. Così come il riempirsi di gente di antichi Borghi dimenticati.
Nel libro “Manifesto per riabitare l’Italia”, appena edito da Donzelli, cinque autorevoli studiosi hanno messo al centro della questione territoriale nel nostro paese, non più la metropoli ma quei territori coinvolti in un processo di sofferenza demografica e di contrazione insediativa.
«Dalla fine del secolo scorso – scrivono –, l’Italia conosce una vera e propria crisi delle sue tradizionali egemonie territoriali: i centri, i luoghi cui in passato era stata attribuita in’indiscussa funzione direzionale, non riescono più a legittimare il loro ruolo trainante per l’intero sistema delle economie, delle relazioni sociali, dei valori simbolici. Questa crisi ha trovato una conferma drammatica con la pandemia da Covid-19, che ha colpito in modo severo il cuore produttivo e sociale del paese, mostrando, in campo sanitario – e non solo – quanto insufficiente fosse la capacità da parte del centro di reagire agli shock esogeni. Si è rotto il meccanismo della direzionalità. Sempre più i grandi agglomerati urbani producono benefici solo per i ceti più ricchi che li abitano, sempre meno riescono a creare vantaggi e opportunità fuori dai propri confini».
Al fulcro del Manifesto sta dunque l’idea che i centri, non abbiano più un ruolo trainante per l’economia e le relazioni sociali. In questo senso, la pandemia da Covid-19 ha icasticamente mostrato l’incapacità del centro di rispondere ai traumi moderni.
Gli autori propongono quindi di guardare all’Italia del margine come ad una risorsa in quanto produttrice di «stimoli alternativi, fantasie d’impresa, impegno diffuso di organizzazioni di cittadinanza attiva, che presuppongono modelli di produzione e di socializzazione, stili di vita, rapporti con il proprio corpo, con la terra e con la natura, riscoperte di tradizioni e culture profonde, immedesimazioni nei luoghi e nel loro significato»
Si tratta di un “Manifesto” nel senso più concreto del termine: un documento programmatico per una Italia diversa e soprattutto dal futuro possibile. Niente di passatista o peggio di autocompiacimento, ma, come ben afferma l’antropologo calabrese Vito Teti , una possibilità di riscatto, di risarcimento dell’Italia dell’Osso, avendo consapevolezza che «in agguato ci sono la retorica, le mitizzazioni del passato, le glorificazioni del buon tempo antico, la scrittura di autori di successo che hanno fatto del passato, delle piccole patrie, delle rovine, dei paesi abbandonati oggetto di una rivisitazione neoromantica e di una riconquista nostalgica ad opera di chi è estraneo a quel mondo.
I paesi non hanno bisogno di celebrazione, ma di attenzione, devono essere visti con la loro forza e la loro ombra. Con le lacrime e sangue che pagano quelli che restano e che sono l’altro volto di quelli che, con lacrime e sangue, arrivano».