Vi sono alcune persone che lamentano difficoltà nel mantenere rapporti d’amore o di amicizia per una loro tendenza ad isolarsi; o che lamentano un senso di fatica e costrizione nel sostenere con costanza l’impegno emotivo relativo alle richieste e alle aspettative delle persone con cui loro hanno una relazione intima. Per tali motivi spesso vengono accusati dai partner o dagli amici di non essere interessati e presenti al rapporto, di restare “lontani” ed in ultima istanza di non provare amore.
Contrariamente alle accuse che vengono loro mosse, queste persone sono invece capaci di amare, ma lo fanno in modo da mantenere sempre una certa “distanza di sicurezza” dagli altri. Ora, per capire meglio perché accade ciò, dobbiamo partire dal presupposto che il nostro senso di identità, la nostra personalità ed anche il nostro “stile di attaccamento” (cioè la modalità con cui costruiamo, manteniamo e rompiamo i legami affettivi) sono il prodotto di un’organizzazione mentale che si struttura nella primissima infanzia sulla base delle precoci esperienze relazionali con i caregivers (ovvero le figure che si prendono cura di noi e che solitamente sono i genitori).
Quindi è dall’età neonatale che dobbiamo partire per capire come mai diverse persone da adulte diventano “distaccate” rispetto ai legami. Il “bisogno di attaccamento” (J. Bowlby) è innato ed una sua espressione è il bisogno di vicinanza al corpo della madre. L’importanza di questo contatto fisico è stata chiaramente dimostrata dai famosi studi di Harlow H. sulle scimmie. Egli dimostrò che le scimmie neonate private di questo contatto non riuscivano ad avere un normale sviluppo, si deprimevano e sviluppavano disturbi nella condotta sociale e nell’adattamento al branco.
Vari studi hanno dimostrato che anche nel bambino la mancanza di contatto con la madre o con un sostituto materno ha un effetto analogo: il bambino diventa depresso e perde la capacità di risposta emotiva. Più in generale possiamo dire che sono le esperienze infantili dominate da una mancanza di disponibilità emozionale e da comportamenti di rifiuto da parte dei genitori (o percepiti come tali dal bambino) che strutturano nei figli un “comportamento di evitamento” (J. Bowlby) della vicinanza affettiva ed un mondo interno dominato dall’ostentazione dell’indipendenza affettiva (dietro cui c’è la paura della dipendenza affettiva).
Questa negazione del bisogno di dipendenza affettiva non avviene però senza che prima il neonato non abbia lottato per un suo diritto umano: questi piange ed urla fino allo sfinimento per richiamare la madre perché appaghi i suoi bisogni di regolazione delle sue funzioni fisiologiche (cibo, cura del corpo, etc.), di vicinanza fisica, di protezione, etc. ed alla fine sfinito imparerà che “deve fare da solo” e si autoconsolerà ciucciandosi il dito ed addormentandosi per lo sforzo fisico del pianto senza risposta. Un errore frequente nell’allevamento dei neonati è appunto la convinzione che è cosa buona “lasciarli piangere finché non smettono”, ma la solitudine e la perdita del contatto con il calore e l’odore del corpo materno invece terrorizzano il neonato.
Fra i mammiferi non esiste madre che non risponda al pianto del suo piccolo. E così, se questo scenario è la norma più che l’eccezione, si pongono le basi del “tenere a distanza” gli altri, anche quelli emotivamente più importanti e significativi.
Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta Psicoterapie individuali, di coppia e familiari
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