di Angelo Alfani
‘Ciarisemo! Cò questa so sessantasette!’. ‘E me cojoni!’, rispose un coro di cervetrani in attesa desse serviti da i gemellini valleranesi . “Ve tocca stacce! e abbozzà. Semo stati più paraculi de voiartri”, rispose de rimanno il dispolano sgasando giù per i giardini.
Ma senti tu che tocca da sentì! Noi a zappettà li ciocchetti, a ‘nfangasse fino a li porpacci, ad accenne le candele a Sanmichele pregannolo de tenè lontano le gelate, come se ricconta avesse fatto co li saracini piantannoje la spada nel didietro. E loro, i dispolani? Niente, spaparanzati al bar de sor Amircare, a riraccontasse le conquiste della passata estate e a pregustasse quelle della nuova balneazione, a buttà li quarche nome de cantante da portà sur palco della prossima sagra del carciofolo.
Sti sciapi! Noi a girà tonno tonno al mucchio verdechiaro der campagnano, a smucchiallo pè vedè che succedeva e loro, i dispolani, ad organizzà ‘na sagra sempre più grossa, gonfiatasi nell’anni fino a scoppià de umani accarcati attorno a bancarelle zeppe de paccottiglia.
’Na sagra slabbrata ‘nsomma, caciarona e meno popolare de quelle dell’anni cinquanta. N’a sagra tutta dispolana nun cè ombra de dubbio, ma li carciofoli no: quelli a maggioranza cervetrani. Così è stato, così è!
Le splendide foto che immortalano la mejo gioventù, appartengono ad anni lontani, quando i medici condotti ‘ricettavano’ librium per le sassaiole e sturavano l’orecchie all’omini, coll’aiuto complice de ‘na scuffiona sorridente. Alla politica manco ce pensavano! Tutto ar più in quell’anni ci avemo avuto sindaci un ‘quinta elementare’, un vetrinario e de rimbarzo un ragioniere. Mica erano male. Anzi! Poi so ‘rivvati li dottori!
Erano anni in cui Il campagnano, papà e Papa del carciofo romanesco, trionfava nelle piane di Zambra a partì da sotto la cabina, paro paro lungo la fettuccia inpinata dell’Aurelia, de qua e de là del fosso Vaccina. Piante enormi che, se diceva se lo succhiaveno er terreno da millenni vergine, ma che poteveno arricchitte proprio come n’annata bona de cocommeri. Annate in cui non sapevi a chi dà er resto: soldi “a saccocciate”. Ce lo dovemio ricordà che ce semo campati cò sto carciofo!
Si vendeva tutto: dai cimaroli, ai braccioli, dai costaroli alla carciofina. Altri anni in cui i campi te li ritrovavi a giugno di color turchino intenso, come una immensa tonaca da quaresima.
A primavera inoltrata i cimaroli bucaveno tutta la volta turchina del cielo, sbucanno dar verde intenso: compatti, magnifici,sensuali.
Il primo mazzo a dieci se portava al primario, puta caso, facenno li scongiuri, se ne doveva avè bisogno, un’artro ar marescialletto del Celio pé fa avvicinà quella creatura tanto lontana, n’antro al maestro, cò li tempi che corrono senza licenza elementare ‘ndò lo trovi ‘n postarello, n’artro al funzionario del Ministero per quella pratica de pensione coll’accompagno.
Poi giù, a rotta de collo, a taglià e riempì cassette, a caricà li camioncini, a gonfialli come zampogne, pronti a partì de notte per li mercati generali. Per anni si è magnata solo a Roma quella prelibatezza, al nord se puncicavano li diti con certi pennelloni senza core e tante spine. Poi, cò ‘n po’ de migrazione, grazie anche ad alcuni avventurosi cervetrani che diressero li camioncini nei paesi a nebbia, cominciarono a conoscerli stì benedetti carciofi romaneschi pure li polentoni, che ancora se ostinano a chiamarli mammole.
Se ne raccontano de cotte e de crude su questi viaggi al nord. Da quelle classiche su permanenze prolungate della mejo gioventù che ce trovava fidanzata su verso Bologna lasciandoci tutto l’incasso. Da Palmira der telefono era un via vai de genitori, de promesse spose, de fidanzate anziose, de compratori de carciofete, che se sgolavano dentro la cornetta nera: “Disgraziato, ma quanno torni, ma che stai a combinà lassù. Ma come nun se vende gniente? Gastone ci ha già fatto tre carichi!
Quanno te rivedo te strozzo, quanto è vero ‘ddio! Spetta, spetta, nun riattaccà che te vò parlà mamma!”. “Allora cocco mio, come stai? Sei coperto bene? Me riccomanno che ce po’ fa pure la neve de ‘sti tempi lassù! Guarda che tu regazza te stà aspettà, passa ‘na sera si e l’artra pure. Sine, sine te la saluto io,ce penso io a carmalla. Ma tu sbrighete a venì giù! E me raccomando, fijarello mio, fa attenzione che lassù so certe aspidi! Stacce attento, credeme! Un bacione, tesoruccio mio. Si, te lo saluto io tu padre. Bacioni eh, bacioni, cocco!”.
Un’altra storia racconta di un camioncino di disperati che, di città in città, di “non mi interessa” in “non mi interessa” giunse a carico pieno al mercato ortofrutticolo di Padova.
Ma pure li je toccò sentì la stessa solfa: li carciofi non li volevano proprio, manco a tiraielli appresso. Un padovano, per pijalli pè micchi, gli suggerì de portarli allo stabilimento della Cynar. Dopo ‘n’ora e passa de va e vieni si trovarono davanti ad un cancello in cui trionfava l’immagine del carciofo con la scritta Cynar contro il logorio della vita moderna. Il guardiano, alquanto stupito de vedesse davanti un camioncino stracarico de carciofi, chiese cosa desiderassero.
“Cercamo il dottor Cynar. Gli volevamo proporre ‘naffarone.” “Ma quale dottor Cynar, ma di che mona di affarone state parlando?” ”N’affarone è ‘naffarone. Mica potemo fallo cò te che ci hai ‘na divisa che me pari Giovanni la guardia. Forza arzela sta sbarra, facce entrà, che tenemo da parlà col dottor Cynar. Mica semo venuti a mette er prezzo alle saraghe!”. “Ma che lingua parlate, ma che Giovanni, ma che dottor Cynar! Sloggiare, tornate in Abissinia!”. “Oh bono, oh sta bono! Senza che te la pji troppo. Perché con noi fai due fatiche, una a incazzatte e l’artra a…”
Il guardiano, guardandoli bene in faccia, finalmente capì l’equivoco e in modo bonario cercò di allentare la tensione “Ma putei benedetti! Ma chi vi ha messo in testa che il Cynar se fa coi carciofi. Massimo, massimo, ci buttano qualche foglia. Comunque se volete, vi consiglio di aspettare l’uscita degli operai. Provate a venderli a loro. Perlomeno i soldi per la benzina ci scapperanno”.
Il carciofolo insomma fu, per decenni, speranza e disperazione, gioia immensa e dolore lancinante. Festeggiamolo dunque sto’ Re cimarolo: inchinamose tutti!