di Antonio Calicchio
Esistono storie che, per una molteplicità di motivi, colpiscono particolarmente. Per i bolognesi, ad es., la storia della strage della stazione è davvero straziante. Però, non è necessario essere bolognesi per sentirsi colpiti dall’evento.
Ciò che è successo, alla stazione, il 2 agosto 1980 è un accadimento incredibile, enorme, impensabile. I morti, i mutilati, i feriti sono talmente tanti che corrono il rischio di sembrare una statistica, di depersonalizzarsi. Ma non è così; è sufficiente guardarvi dentro attentamente, concentrare lo sguardo sulla stazione sventrata e si può avere netta la sensazione di che cosa voglia dire il termine “strage”. Questa è la storia di una strage: è la storia della strage della stazione di Bologna.
Sala d’aspetto, 2 agosto 1980, ore 10,25. E, in una sala d’aspetto, le persone “aspettano”, appunto, stanno sedute sulle poltroncine, sulle valigie oppure a terra: leggono, parlano, dormono, studiano i tabelloni con gli orari, entrano ed escono. Poi, il caldo, quel caldo di una mattina d’agosto. Se vi fosse stato un fotografo sulla porta, avrebbe allora immortalato l’immagine della sala con le persone, perché una fotografia ferma il tempo per un attimo, giusto il tempo che si chiuda l’otturatore della macchina, e, poi, il tempo continua, prosegue. Ma quella fotografia blocca il tempo per sempre.
E, d’improvviso, una bomba scoppia: la sala d’aspetto, gli uffici al piano superiore, il ristorante e il bar, una intera ala della stazione di Bologna si alza e ricade su se stessa. Il muro portante crolla, trascinando, con sé, le lamiere delle pensiline e i mattoni del tetto: fiamme, schegge di metallo e pezzi di cemento si introducono nel sottopassaggio e, da una parte, investono un treno che sosta sul binario; dall’altra, fuori dalla stazione, spazzano via i taxi, sul piazzale.
L’ambulanza è in arrivo alle 10,27 e i taxi, sul piazzale, trasportano i feriti all’ospedale; l’autobus si trasforma in una infermeria viaggiante. Arrivano tutti: tassisti, viaggiatori, vigili del fuoco, infermieri, carabinieri, poliziotti, militari, persone di passaggio. I corpi morti sono ottantacinque, oltre duecento feriti: si tratta della maggiore strage accaduta, in Italia, in tempo di pace. E non finisce qui, con questi morti e questi feriti: vi è un ulteriore aspetto parimenti lacerante. Vi sono i parenti.
Ed infatti, appena la notizia si diffonde, a Bologna, in Italia, in tutto il mondo, chiunque abbia qualcuno che stava viaggiando quel giorno, si preoccupa, tenta di rintracciarlo, cerca notizie, ha paura.
Ma tutto questo, perché? Come?
La prima ipotesi formulata, la prima voce diffusa, è che sia scoppiata una caldaia, sotto il ristorante. Un incidente, cioè. Ma nessuno ci crede. La caldaia è ancora là. Il giorno dopo, il presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, nell’ambito di una conferenza stampa, presso il palazzo comunale di Bologna, parla di “deflagrazione dolosa”; e il procuratore della Repubblica di Bologna apre un fascicolo, ai sensi degli artt. 285 e 422 c.p., ovverosia quelli di strage.
La perizia balistica accerta che, in una valigia, lasciata nella sala d’aspetto, vi erano ventitre chili di esplosivo.
Ma chi è stato?
Sin dall’inizio, le indagini si indirizzano verso una area politica precisa in cui trovare quantomeno gli esecutori, se non i mandanti: l’estremismo neofascista. E a condurre i magistrati in quella direzione, un rapporto depositato dalla Digos, di Bologna, il 22 agosto contenente documenti che provano la vocazione stragista di certa destra neofascista. Poi, vi sono i precedenti: la strage di p.zza Fontana, quella di Peteano, la strage della Questura di Milano, la strage del treno Italicus, quella di Brescia. Vi sono voci e confidenze, discorsi fatti in carcere da detenuti di estrema destra, raccolti dalla polizia. E vi sono le indagini di un magistrato romano che stava mettendo a fuoco l’arcipelago dei gruppi del terrorismo neofascista, principalmente le sue relazioni con la criminalità organizzata ed esponenti del mondo economico e politico, quando è stato ammazzato.
La matrice della strage pare quella; ma materialmente chi ha collocato la bomba? Chi ha dato l’ordine?
Il 28 agosto, la Procura bolognese emette dei mandati di cattura a carico di taluni protagonisti dell’estremismo di destra. A questi, se ne aggiungono altri, per un totale di oltre cinquanta. Le accuse – per ora – sono di associazione sovversiva, banda armata ed eversione dell’ordine democratico.
E qua inizia il secondo mistero della strage alla stazione di Bologna. Il primo, è chi e perché, ma un altro mistero concerne ciò che avviene intorno alle indagini. Perché, appena l’inchiesta inizia, arriva una serie di confidenze, pentimenti, scoperte, depistaggi che estendono e restringono le indagini, che si orientano su ogni direzione, nel tentativo di afferrare qualcosa, fermare una possibile verità.
Una telefonata attribuisce la responsabilità ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, un gruppo terrorista di estrema destra. In seguito, si scoprirà che si trattava di un depistaggio. Poi, vi sono le dichiarazioni di un detenuto che parla di una pista internazionale. Ma quest’ultimo verrà condannato per calunnia.
Viene, altresì, evidenziata un’altra pista internazionale, secondo cui a mettere la bomba materialmente sarebbero stati due giovani neonazisti tedeschi. Altro depistaggio? Ed ancora: si riconduce l’attentato a neofascisti italiani che studiano nei campi di addestramento per terroristi in Libano e a tedeschi. Secondo le informative, la pista è libanese, no, è spagnola. Poi, avviene un altro fatto.
Il 13 gennaio 1981, in uno scompartimento dell’Espresso Taranto/Milano, i carabinieri rinvengono una valigia sospetta, all’interno della quale vi sono un mitra con due caricatori, un fucile da caccia, due passamontagna, due guanti di gomma e delle lattine piene di esplosivo. Esplosivo identico a quello che ha fatto saltare la stazione di Bologna. I carabinieri si sono portati su quel treno a seguito di un rapporto che menziona un insieme di attentati alle linee ferroviarie, organizzati da neofascisti italiani e terroristi francesi e tedeschi. Ancora la pista internazionale. Le questure, i comandi dei carabinieri e gli uffici di polizia ferroviaria si allarmano. Altro depistaggio.
In tale ragnatela di piste che fanno correre i magistrati in ogni direzione, che fanno aggiungere, alla lista degli indagati, sempre nomi nuovi e nuove spiegazioni, le indagini rischiano di smarrirsi. I magistrati rimbalzano fra i vari elementi e, quando toccano la verità, rischiano di non riconoscerla o di non trovare sufficienti elementi per dimostrarla. Ed inoltre, ogniqualvolta una pista si dissolve, rivelandosi un depistaggio, toglie credibilità al resto.
Gli indagati, dalle origini della inchiesta, vengono scagionati. Il 15 settembre 1981, presso il Tribunale di Bologna, si discute in ordine all’archiviazione del caso, in quanto privo di colpevoli, di mandanti e di verità. Ma i magistrati non vogliono. Non vuole Bologna. E, soprattutto, non vogliono i familiari delle vittime. Nel giugno 1981, sorge l’Associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Associazione che fa pressione pubblicamente affinché l’inchiesta prosegua. E ogni anno, il 2 agosto, si recano là, dove si svolge la commemorazione dell’anniversario della strage, ad invocare giustizia e verità.
Nel dicembre 1985, vi è una svolta nelle indagini. Dietro istanza dei pm, i giudici istruttori emettono una serie di mandati di cattura. E, nel giugno dell’anno successivo, sono disposti dei rinvii a giudizio, per associazione sovversiva, nei confronti di un gruppo che aveva il compito di sovvertire l’ordine democratico con attentati commissionati a gruppi di estrema destra.
Il processo si apre nel gennaio 1987, ma parte realmente due mesi dopo. Nel luglio 1988, la seconda Corte d’Assise di Bologna emette condanne all’ergastolo, per strage e per calunnia, per il reato di depistaggio. Due anni dopo, la Corte d’Assise d’Appello annulla gli ergastoli, per strage, annulla e diminuisce quelle per depistaggio. L’Associazione dei parenti delle vittime è sconvolta. Il Capo dello Stato, Francesco Cossiga, e taluni esponenti del MSI chiedono che, dalla lapide alla stazione, accanto alla parola “strage”, venga cancellata la parola “fascista”. Nel febbraio 1992, la Corte Suprema di Cassazione ritiene la sentenza illogica e priva di fondatezza. Tutto da rifare. Nel maggio di due anni dopo, la prima Corte d’Assise d’Appello pronuncia, di nuovo, condanne per strage all’ergastolo e per calunnia aggravata da finalità di terrorismo – il depistaggio – assolvendo taluni imputati, qualcuno dei quali non è stato neppure rinviato a giudizio. Nel novembre 1995, la Suprema Corte conferma le condanne e le assoluzioni, rinviando, per qualche imputato, ad un altro processo.
Sotto il profilo giudiziario, la strage alla stazione di Bologna ha una sentenza definitiva.
Manca qualcosa?
Mancano i nomi dei mandanti e degli strateghi.
Perché? Per numerose stragi, in Italia, si è parlato di “strategia della tensione”. Produrre il terrore per sospingere il Paese ad una reazione autoritaria. Vale pure per Bologna?
I misteri rimangono, anche in relazione ai depistaggi. Vi sono delle parole pronunciate, il 2 agosto 1981, in occasione del primo anniversario della strage: “Un Paese che rinuncia alla speranza di avere giustizia ha rinunciato non soltanto alle proprie leggi, ma alla sua storia stessa. Per questo, severamente, ma soprattutto ostinatamente, aspettiamo”.