Il 16 marzo del 1978 avvenivano il rapimento di Aldo Moro e la strage della sua scorta, ancora non si conosce la veritàdi Antonio Calicchio
L’assassinio di Moro, unitamente agli uomini della sua scorta, rappresenta uno dei rari casi al mondo in cui la storia è scritta non dai vincitori, né dai vinti, bensì da un’altra categoria di soggetti: i colpevoli. Ed infatti, sono 40 anni che la nostra società pare voler fare affidamento sugli assassini e sulle loro parole, per conoscere il senso della strage di via Fani e del delitto del leader della DC, nonché il loro movente. Con benevolenza, i membri delle BR forniscono quanto viene loro domandato: numerosi articoli, libri, interviste circa il proprio stato d’animo, l’obiettivo dell’omicidio a sangue freddo, il resoconto – ripetuto, ormai, migliaia di volte – delle ultime ore della loro illustre vittima, ben consapevoli della macabra curiosità che muove sempre questo tipo di narrazione.
L’attenzione, pervicacemente ed ininterrottamente, centrata sui brigatisti, insieme alla continua sete delle loro parole, testimoniano una autentica incertezza della società italiana rispetto al terrorismo rosso, quasi che essa non fosse ancora persuasa di quale analisi e di quale giudizio darne. Quasi che fosse incerta.
Ed è proprio così. Esiste, a tutt’oggi, una parte rilevante ed influente – anche sotto un punto di vista culturale – della nostra società la quale persevera nel ritenere che non soltanto il terrorismo delle BR non fu ciò che sembrava, e cioè una propaggine della tradizione comunista, o, quantomeno, non fu principalmente questo, ma soprattutto che il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro nascondano misteri e segreti tali da modificarne il significato apparente.
L’arcinota teoria generale del “doppio Stato”, mezze verità e mezze bugie, coincidenze presenti in ogni vicenda complessa, particolari insignificanti, circostanze casuali: il tutto viene mobilitato allo scopo di supportare le ipotesi summenzionate, malgrado, in tutti questi anni, non sia mai emerso un solo vero documento, una sola valida prova in relazione ai presunti retroscena di quel 16 marzo. Non importa.
Da quarant’anni anni, tutto viene unito ed emulsionato a dovere per suggerire una duplice verità, alternativa a quella del buon senso, ovverosia che l’operazione di via Fani e la morte del leader della Democrazia Cristiana, soggiacessero – in realtà – ad un piano i cui fili venivano mossi da entità di natura internazionale (servizi segreti USA o loro settori), contrari alla politica del “compromesso storico” tra DC e PCI, e, che l’uccisione di Moro era fondata sulle segrete complicità del “potere”, e specificamente della DC, dal momento che solamente così si chiarirebbe il motivo per il quale essa “non avrebbe fatto nulla per salvarlo”, e perché, in particolare, si sarebbe rifiutata a quel “segnale dei apertura”, a “quel gesto simbolico” che – si dice – avrebbe salvato la vita al prigioniero. Tuttavia, negli anni, non si è mai registrata una qualche risposta persuasiva, da parte dei fautori delle citate idee, in merito alle due fondamentali obiezioni che si possono loro sollevare, vale a dire: non è sufficiente, forse, a spiegare l’immobilismo di tutti gli attori sul piano della trattativa e della “clemenza”, il fatto che una volta ultimata una trattativa a favore di Moro divenisse impossibile, per l’avvenire, non fare lo stesso per un eventuale rapimento anche dell’ultimo e più insignificante cittadino catturato dalle BR? Perché per Moro sì e per chiunque altro no? Ma quali effetti avrebbe prodotto una simile prospettiva?
In ordine all’idea del complotto internazionale, è da evidenziare che se l’interesse di chi tirava effettivamente i fili fosse stato quello di eliminare Moro, perché non ammazzarlo in via Fani? Perché tenerlo in vita per 55 giorni? Perché la complicazione della prigione, degli spostamenti, dei comunicati e così via? E se lo scopo, invece, non fosse stato quello di ucciderlo, come mai i potenti burattinai consentirono che, al contrario, proprio questo fosse il risultato della vicenda?
Ma, anziché rispondere a queste logiche obiezioni, la dietrologia di turno preferisce diventare intellettualmente complice di fatto delle BR.
In una duplice maniera: la prima, consiste nell’avallare i tentativi degli stessi brigatisti di coinvolgere altre responsabilità, oltre la propria, facendo ricorso, anch’essi, alla teoria del “doppio Stato” e raffigurandosi quasi come sprovvedute creature, non già manovrate, ma strumentalizzate da quei soggetti appartenenti alla direzione della DC e al Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana. Il secondo genere di complicità intellettuale consiste, invece, nel valutare i silenzi e le omertà di cui molteplici brigatisti ancora avvolgono passaggi importanti della loro attività criminosa, non tanto come la dimostrazione della loro perdurante reticenza, quanto, piuttosto, come il mero trasferimento entro le BR di silenzi ed omertà che rinvierebbero al comportamento di altri attori, a cominciare dallo Stato italiano, oltre che dalle sue forze politiche. Con una sorta di gioco di prestigio, i misteri ed i silenzi delle Brigate Rosse su sé medesime divengono, in tal modo, i misteri ed i silenzi allusivi di chissà quali inconfessabili protagonisti, sempre annidati nello Stato, a riprova della sua colpevole doppiezza.
Per rendersi conto che non si tratta di esagerazioni, basti leggere quanto hanno sostenuto taluni storici, consulenti ufficiali della Commissione stragi del Parlamento, secondo cui la morte di Moro sarebbe stata decisa da un non meglio precisato “partito non brigatista dell’omicidio”, espressione di “forze eterogenee, parte dei servizi segreti piduisti, settori della criminalità organizzata, e forze politiche tradizionali, peraltro, di destra” che “avrebbe stretto d’assedio le Brigate Rosse accerchiandole fino a costringerle all’atto estremo”. Povere Brigate Rosse, viene da commentare.
Sono anni, in realtà, che pure il delitto Moro è utilizzato con la più spregiudicata indifferenza verso i fatti e verso il buonsenso, per effetto di quella maliziosa generale volontà di riscrittura della storia repubblicana che si prefigge di consegnare alla damnatio memoriae la Prima Repubblica, in particolare la DC. Ed è per servire a simile fine politico che nella vulgata di questa storiografia, l’assassinio di un capo della DC, per mano di terroristi che si proclamavano comunisti, si traduce – con un colpo di bacchetta magica – nell’infondata idea di un complotto della destra, nazionale e internazionale, padrona del “doppio stato” democristiano, per impedire al PCI di sedere al governo.
Tuttavia, se veramente questo fosse stato l’obiettivo e il senso dell’agguato di via Fani, allora occorrerebbe concludere dolorosamente che il delitto pagò, e che il suo movente effettivo si tramutò in un esito reale. Ma così non fu. Nel quarantesimo anniversario di quell’orrido fatto di sangue, esso continua a mostrarsi come si rivelava a quasi tutti già allora: il tragico e vano risultato di un cupo impazzimento ideologico nemico della nostra libertà e della nostra democrazia.