di Antonio Calicchio
A mio avviso, vi sono stati tre grandi Pontefici nella storia della Chiesa: Gregorio VII, Innocenzo III e Giovanni Paolo II; e ciascuno ha affrontato, e risolto, una crisi tragica.
Ed infatti, Gregorio VII, il rischio che la Chiesa fosse assorbita dal feudalesimo e dal sistema che esso esprimeva. L’imperatore e i re nominavano vescovi i propri amici, i propri vassalli, conferendo loro il titolo di conte, marchese; e il Papa, in una Roma ridotta a ventimila abitanti, veniva eletto dai nobili e dalla plebe. Col dictatus papae, del 1075, Gregorio VII impose il celibato, ordinò che i vescovi venissero nominati dal Papa e prescrisse, altresì, che costui non venisse eletto che da persone scelte dai Papi: i cardinali. E così, annichilì gli altri poteri ed edificò la Chiesa che tuttora dura.
Innocenzo III affrontò lo sviluppo economico, scientifico e culturale dell’Europa. In ogni dove, esplodevano movimenti religiosi di rinnovamento che divenivano eresie; nel Sud della Francia, si diffondeva una religione non cristiana, il manicheismo. Innocenzo III convocò i capi dei movimenti potenzialmente eretici, ad es. San Francesco e San Domenico, dicendo loro di scrivere la loro “regola” che sarebbe stata da lui firmata, in modo che potessero diventare un ordine della Chiesa ubbidiente direttamente al Papa. Francescani e domenicani, nei due secoli successivi, divennero i pilastri essenziali della Chiesa e del papato. Sino a Lutero, quando i Papi non riuscirono capire e la cristianità si frantumò.
E Giovanni Paolo II, quale crisi ha affrontato? Per un verso, il tramonto politico-culturale dell’Europa, la cui classe dirigente è, ormai, decristianizzata e, per altro verso, la mondializzazione con l’emergere di altre civiltà e, in particolare, quella islamica. Papa Wojtyla ha ignorato, senza paura, la decadente irreligiosità europea, ha impugnato il Vangelo, rivolgendosi a tutti gli uomini della Terra che sono ancora capaci di credere, senza distinzioni politiche, religiose, linguistiche, sociali o etniche. Non ha aspettato che fossero gli altri a venire, ma è andato lui in mezzo a loro, ovunque, personalmente, usando tutti gli strumenti della tecnica e tutte le spettacolari scenografie. Si è rivolto ai giovani, alle persone dalla fede semplice; ed ogni volta si è attenuto al cuore del Vangelo che si rivolge a quello di ognuno. Ha parlato della dignità e della libertà della persona umana, ha dato coraggio, speranza e fiducia, a tutti e a ciascuno. Ha fatto sentire, anche all’ultimo degli esseri umani, di essere importante perché fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Ha proclamato che la religiosità scaturisce non tanto dall’alto, bensì dal basso, dai movimenti religiosi, dalle comunità di credenti, dai martiri, da tutti coloro che hanno testimoniato dappertutto con la loro vita, con il loro esempio e la loro opera la presenza della fede. E siccome questi sono tantissimi, ha proclamato un numero enorme di beati, di santi, di protagonisti della Chiesa vivente. E’ stato definito il parroco del mondo! E per trovare una analogia occorre pensare ai profeti dell’Antico Testamento che si rivolgevano al popolo parlando di Dio, lo sostenevano, lo correggevano, lo guidavano, alimentavano la sua fede e gli indicavano la meta.
Il 16 ottobre 1978, è asceso al soglio pietrino, guidando la Chiesa di Roma, all’età di 58 anni. Non gli è stato risparmiato nulla: ha convissuto col dolore.
Quando lo vedevo affacciarsi per benedire la folla, il mio sguardo si fissava sul tremito della sua mano e vedevo nei suoi occhi la pena per gli affanni del mondo. Penso a Karol Wojtyla ragazzo, cresciuto in un lontano villaggio, tra la parrocchia e l’osteria, i campi di segala e i malinconici canneti, i cieli della Polonia, la polvere delle cantorie, i volti duri dei santi, il profumo della cera che brucia e dell’incenso che svanisce, e una sera, recitate le orazioni, giunge la chiamata divina: “Abbandonerai tutto, pure tua madre”. Ubbidì.
Aveva 20 anni, quando in Polonia arrivarono i Tedeschi che deportavano e assassinavano.
Officiava la prima messa quando al potere andò un governo che combatteva la religione e imponeva altre dottrine. Divenne vescovo e dovette, per insegnare, rischiare la prigione. In ogni momento, il peggio era in agguato.
Ma affronta il pericolo con la serenità di chi sa che, quando il fango sale, bisogna essere pietra per segnare la via giusta della storia.
Ed esistono immagini che lo rappresentano nella sua umanità: ragazzino con un cappellino di pezza, a 9 anni aveva perso la madre. Poi, un fratello, giovane, medico, ucciso dalla scarlattina. Poi, il padre, col quale aveva studiato e pregato, se ne va.
Poi, lui giovanotto, con gli sci sui monti; in bicicletta, mentre si rade all’ombra di un albero.
E ancora la solennità di S. Pietro, col mistero che decide di cento destini: il conclave elegge uno che viene da lontano, fuori da tutte le congetture e da ogni previsione. Il suo italiano conquista le folle: “Se mi sbaglio, voi mi corrigerete”.
Quando il male e la cattiveria umana lo colpiscono, prima di cadere, mormora: “Perché lo hanno fatto?”.
Non è facile comprendere un gesto che nelle menti normali risulta intollerabile. Perché ammazzare un sacerdote che predica la legge della carità e dell’amore? E perché fu colpito Gandhi, la più indifesa delle creature, che predicava la non violenza, che soltanto con le parole e l’esempio aveva messo in crisi un impero? Anche allora tre colpi di rivoltella.
Quando il male raggiunge il Papa e deve affidarsi ai chirurghi, congedandosi dai fedeli che attendono la sua benedizione in piazza S. Pietro, si raccomanda: “Pregate per me”. Poi, la finestra si serra.
Il vecchio sacerdote Wojtyla avrebbe potuto ripetere le parole che pronunziò il primate di Varsavia, Wyszynski, quando vide la fumata che annunciava il nuovo pontefice: “Quello che ho passato in quegli anni lo sa Dio, gli uomini è bene che lo ignorino”.
Karol Wojtyla è tornato alla casa del Padre la sera del 2 aprile 2005.