In occasione della XIV Settimana di Azione contro il razzismo (19-25 marzo 2018)di Antonio Calicchio
Il “pregiudizio” è definibile come un’opinione, talvolta anche una dottrina, accolta dalla tradizione, dal costume o da una autorità, in modo “passivo” e “indiscutibile”, vale a dire senza essere verificata – a causa di inerzia o di rispetto o di timore – e al punto da resistere ad ogni confutazione razionale oppure sperimentale. Esso non solo genera convincimenti erronei, creduti veri, ma è difficilmente correggibile, perché l’equivoco che ne scaturisce attiene, ed è riferibile, ad una fede falsa e non ad un argomento sbagliato ricavato dalla ragione o dalla esperienza.
Il pregiudizio, inoltre, nell’indurre a credere di sapere, senza sapere, è legato, in linea generale, alla “prevenzione”, cioè alla predisposizione a considerare valida una idea che tale non è.
Sebbene esistano varie forme di pregiudizio, tuttavia una fondamentale classificazione è quella tra pregiudizi individuali e pregiudizi collettivi; questi ultimi sono quelli condivisi da un gruppo sociale e concernenti altro gruppo sociale. E’ pur vero che essi sono innumerevoli, però non è dubbio che i due più influenti sul piano storico sono il pregiudizio nazionale e il pregiudizio di classe: sul piano storico, perché i conflitti che hanno segnato l’evoluzione della umanità sono quelli derivati dalle guerre fra popoli e dalla lotta di classe.
La conseguenza primaria del pregiudizio collettivo, entro cui è da inquadrare anche quello razziale, è la “discriminazione”, che concretizza una differenziazione ingiusta o illegittima fra gruppi e che avviene sul piano giuridico, sociale e politico.
Se è certo che vi sono molteplici specie di discriminazioni (linguistiche, sessuali, religiose), è del pari innegabile che quella più odiosa ed aberrante risulta essere la discriminazione razziale, la quale, data la sua natura intrinseca, è orientata non tanto nei riguardi del singolo o di tutti i diversi o gruppi di diversi, quanto nella direzione di un gruppo ovvero di un componente di questo, ove vi sia stato un preliminare contatto materiale. Conferma se ne trae, peraltro, da quella autentica figura di discriminazione razziale – o razzismo – data dall’antisemitismo.
Le condizioni essenziali per la nascita di un atteggiamento o una condotta razzista si identificano nell’ “etnocentrismo” e nella “xenofobia”. Talché, mentre l’uno risiede in una condizione di chiusura e, a un tempo, di esclusione, l’altra è riconducibile ad una estrema difesa di tale condizione.
In questa prospettiva, il “razzismo”, inteso come diffidenza nei confronti del diverso, si traduce, in quanto fenomeno di comportamento, da un lato, nel dileggio verbale o nell’indifferenza, dall’altro, nella segregazione o, persino, nell’aggressione; sotto l’aspetto dell’ideologia (o teoria), si compie in virtù di tre presupposti:
un giudizio di fatto, in ordine alla constatazione che l’umanità è suddivisa in razze differenti per effetto di elementi di carattere biologico, psicologico, culturale;
un giudizio di valore, relativamente alla esistenza di razze superiori e inferiori, buone e cattive, civili e barbare;
una volontà e un diritto di dominio di quella superiore sulla razza inferiore.
Non è chi non veda che la pratica e la dottrina razzistica, oltre che costituire un illogico attentato alla dignità dell’individuo ed una abietta lesione ai suoi diritti elementari, sono, altresì, un cancro sociale che divora e consuma, sono un tipo di perversa violenza che, nell’umiliare la coscienza comune, avvelena le radici della convivenza civile. E in conformità a dette considerazioni, la nostra Costituzione ha ritenuto sancire, all’art. 3, il principio dell’eguaglianza sociale e giuridica, allo stesso modo in cui la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nell’ambito dei primi due articoli, ha avuto ad esprimere disposizioni di analoga portata, reale simbolo di alta civiltà e progresso socio-culturale, che esigono attuazione e adempimento ad opera di tutti, ivi incluse le Istituzioni politiche.
Del resto, è da osservare che il razzismo, trovando il suo fondamento nella mente e nella coscienza dell’uomo, può essere contrastato e rimosso solamente attraverso un’opera di conoscenza e di educazione agli universali valori umani e cristiani, al rispetto dell’assoluto diritto alla differenza e all’uguaglianza; al riconoscimento delle inalienabili libertà individuali e delle imprescindibili specificità etniche; all’esigenza di estendere le dimensioni di democrazia e di pace a ciascun popolo; alle supreme regole di giustizia di trattare gli uguali in modo uguale e i diversi in maniera diversa, nonché di attribuire a ognuno il suo. Un’opera di conoscenza e di educazione, questa, che può rappresentare incontestabilmente la base e la garanzia dell’accettazione e della tolleranza dell’ “altro” – come persona umana – soltanto se sarà sì accompagnata da una sicura condanna verbale o da una costante deplorazione di un fatto tanto spregevole, quanto ignobile; ma anche seguita da una azione fattiva e da un impegno coraggioso, così da pervenire alla costruzione di quella “civitas maxima”, ove qualunque soggetto potrà essere cittadino del mondo, al di sopra di tutte le patrie.