“Avremmo dovuto indignarci di fronte all’abbandono di strutture sanitarie che erano autentiche eccellenze“.
di Daniela Alibrandi
Mai si sarebbe potuta immaginare un’equazione tanto cruda, quanto crudele. Soprattutto nell’epoca delle reti informatiche, delle relazioni sociali spesso delegate a dinamiche virtuali, in un quadro che ci faceva vedere la libertà come un bene acquisito.
E invece la realtà è diversa. Adesso che siamo costretti a stare sdraiati sui nostri divani o sui letti, in questa allucinante distanza sociale, ci accorgiamo che forse supini lo siamo stati per troppo tempo. Gli scenari cambiano in fretta, le strade divengono deserte, non si può passeggiare se non con “il foglio di via”, il territorio è facilmente controllabile. E sappiamo che tutto ciò viene fatto per il bene comune, per combattere il nemico invisibile.
Eppure la riflessione nasce irrefrenabile, mentre avremmo dovuto e potuto individuare da molto tempo le ganasce che adesso ci stritolano. La Sanità di un grande Paese, come quello che ci illudiamo di essere, non può collassare dopo dieci giorni di emergenza sanitaria.
Avremmo dovuto indignarci di fronte all’abbandono di strutture sanitarie che erano autentiche eccellenze, avremmo dovuto disperarci, strapparci i capelli e graffiarci il volto fino a farlo sanguinare, come di fronte a un lutto senza rassegnazione, nel vedere un solo giovane laureato, in medicina come in altre facoltà, decidere di lasciare il Paese per trasferirsi dove le sue capacità venissero valorizzate. Ci rendiamo conto che non era il caso di farla tanto difficile con numeri chiusi, specializzazioni, abilitazioni, un lungo percorso a ostacoli la cui vittoria spesso è stata garantita solo “ai figli di”, alla conservazione di poltrone secondo una consuetudine “dinastica”, non meglio identificata.
E adesso quegli stessi ragazzi che abbiamo ignorato vengono presi e gettati nella realtà più drammatica e difficile che abbia mai investito il nostro Paese. Così, come le giovani leve chiamate a donare il proprio entusiasmo per difendere l’indifendibile.
C’è qualcosa che non torna nei messaggi che stiamo ricevendo. Gli anziani e la loro mortalità, vissuta come un fatto ineluttabile, come se il loro destino fosse già segnato, se non per il coronavirus, per altre cause. Una scelta concettuale difficile da accettare, soprattutto in un popolo la cui cultura ha affondato le radici nell’esperienza e nella saggezza degli anziani. Un messaggio che non giova neanche ai giovani, illudendoli di non essere in pericolo, quasi che la mortalità sia un fatto destinato solo a una fascia di popolazione. Questo virus uccide e può uccidere tutti, questa è la cruda realtà, prima ne prendiamo atto e prima si arriverà alla consapevolezza sociale di accettare le regole per il bene generale.
Ci si aggira tra le quattro mura delle nostre abitazioni, in cerca di un qualcosa che non troviamo più. Non dobbiamo cedere alla voglia di uscire, di stare insieme agli altri, di correre verso il mare, che è stato sempre per eccellenza un luogo capace di curare. Vorremmo leggere un buon libro, ma le librerie sono serrate, come se la lettura fosse meno importante di un vizio, quale il fumo, meno essenziale di un alimento o di una medicina. E non quel respiro profondo di cui il nostro animo ha necessità, ora più che mai.
E ci accorgiamo improvvisamente che oltre ad essere supini, siamo stati anche disattenti. Non abbiamo mai prestato abbastanza attenzione ai litigiosi occupanti della meravigliosa fuoriserie che è il nostro Paese. Li sentivamo gridare, contendersi la guida, il sedile davanti, la libertà di aprire i finestrini, mentre avremmo dovuto esigere l’attenzione al muro di cemento armato contro cui ci si andava a schiantare.
Finirà questa emergenza, come sono terminate tutte quelle del passato, e si dovranno tirare le somme, dare più importanza ai numeri. Dovremo ricordare il tragico appuntamento delle ore 18.00 con i numeri elencati dalla protezione civile, di contagiati e di morti. Dovremo essere più guardinghi, stare attenti ai numeri che verranno comunicati sull’emorragia dei cervelli italiani all’estero, sulla quantità e la destinazione delle risorse. Scopriremo una coesione sociale, forse la più grande che abbiamo mai sperimentato. L’ho sempre detto, la gente italiana è gente tosta e non si smentirà neanche ora, che deve sconfiggere un nemico tanto subdolo da approfittare di un abbraccio, di una carezza, della tenerezza di cui adesso abbiamo sempre più bisogno.