OLIO D’OLIVA, DALL’ASIA MINORE A CERVETERI

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UNA STORIA MILLENARIA CHE PARTE DA LONTANO PER APPRODARE NELLE CAMPAGNE NOSTRANE.

di Angelo Alfani

L’olio ha una storia millenaria, la cui origine sarebbe da rintracciare nell’Asia Minore. È da darsi per certo che gli artefici dell’evoluzione dell’“oleaster” in olivo domestico siano stati i popoli della Siria, cuore dell’espansione di gran parte dei coltivar mediterranei. Il codice di Hammurabi, nel 2500 a.C., ne regolò per primo sia la produzione che il commercio.

Negli anni novanta del secolo scorso, a seguito del ritrovamento di una giara a Castelluccio di Noto, specifiche analisi delle incrostazioni interne fecero esultare lo studioso Davide Tanasi: “Abbiamo individuato la prima prova chimica del più antico olio d’oliva nella preistoria italiana”.Fino a quel momento le tracce più antiche erano state trovate in vasi risalenti al XII secolo a.C.Questa scoperta, afferma ancora Tanasi: “spinge indietro di almeno 700 anni la produzione di olio d’oliva”, cioè all’Età del bronzo. È indubitabile che la coltivazione dell’olivo e la trasformazione del suo frutto in oro giallo è profondamente legato alla storia della nostra civiltà.L’olivo era la pianta sacra alla dea Atena. Secondo il mito, infatti, l’Attica era contesa tra Atena e Poseidone. Vinse la prima facendo nascere dal suolo proprio un olivo. Durante le Panatenee, i giochi dedicati alla dea, i vincitori ricevevano delle anfore piene d’olio in quantità tali da poter vivere di rendita. E come non ricordare il canto di Omero dedicato all’incontro di Ulisse, naufragato nell’isola dei Feaci, con Nausicaa e le sue ancelle? È grazie al dono di un vaso di olio che, spalmato sul corpo nudo, trasforma l’astuto condottiero da uomo ordinario e malconcio in un prestante e splendido “dio”, dalle spalle lisce e muscolose ed i riccioli luccicanti. Heinrich Schliemann disse di aver trovato noccioli d’oliva durante lo scavo del palazzo di Tirino e perfino nelle tombe di Micene.

Ed è dal crogiolo Mediterraneo che l’ulivo diviene parte rilevante del paesaggio dell’Etruria ricoprendone, con le sue argentee foglie, le colline degradanti al mare. Gli Etruschi consumavano le olive direttamente come pasto, ma soprattutto le sottoponevano a spremitura per ricavarne l’olio, condimento basilare dell’alimentazione. L’olio veniva usato all’interno di lampade e lanterne per l’illuminazione, (di solito si utilizzava quello scadente, di produzione africano o quello divenuto rancido), ed anche come base per la preparazione di prodotti cosmetici e come sostanza detergente per la cura e l’igiene della persona.La conservazione avveniva attraverso la salagione, mentre le olive venivano tenute in salamoia e servite sia all’inizio che alla fine dei pasti. La produzione “industriale” di splendidi contenitori, a partire dal settimo secolo, attesta l’importanza economica dell’olio per i Tirreni, suffragata dal relitto della nave del Giglio dalle decine di anfore piene di olive.

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Ai compaesani di Cerveteri è nota la tomba, conosciuta con il nome di “Tomba delle Olive” (575-550 a.C.), poiché vi sono stati trovati dei noccioli di questi frutti. I miei ricordi sulla frangitura cervetrana, a quel tempo dal colore giallo e non verde per le foglie, sono legati a freddi novembrini, all’avvio della Cacciarella, alla comparsa di grilli che cercavano di sfuggire ad inseguimenti di ragazzacci arrampicandosi a fatica su muri scrostati, all’animarsi per alcune settimane dei due frantoi.

 

Quello più moderno e meno incasinato, era di proprietà della famiglia Calabresi e si trovava alla fine del vicolo del Ghettaccio, l’altro, della signora Carlotta e figliuoli, operava nel vicolo che porta alla chiesa di Sant’Antonio. La raccolta, effettuata da squadre composte da interi nuclei famigliari, previo accordo col “capoccetta” dei proprietari di storici uliveti, durava il tempo “che ce voleva”.
Partivano presto la mattina con sacchi di iuta rattoppati e legati stretti tra loro, lunghe scale e pertiche, in direzione delle colline, verso le distese frondose dei Ruspoli-Marescotti, di Nonis, dei Calabresi, di Zavagli, di Pescini. Erano soprattutto donne e giovanissimi che agili si arrampicavano su rami che scrocchiavano per il troppo peso, mentre gli uomini insaccavano ed ammucchiavano fila dopo fila. La raccolta a mano, detta “mungitura”, rendeva a fine giornata le mani livide e “greppate”: l’oliva “morella” era dura a staccasse. All’imbrunire si contavano i sacchi: un terzo ai lavoranti, il resto al proprietario terriero. Intorno ai mulini carretti e rari furgonati attendevano il turno. Rare le lambrette le cui ruote rischiavano di scoppiare per sacchi stracolmi. Gli sguardi di tutti si concentravano sulla pesa, e nell’odore intenso le due macine rendevano poltiglia le olive, che defluita nella gramola, filtrava poi tra i fiscoli. Non passava sera che gruppi di ragazzini con pezzi di pane abbrustolito si mettevano in fila per ricevere il prezioso condimento. Gli ultimi giorni erano per le Marie Assunte e Marie Addolorate che “riprovando”, riempivano grandi tascapane di quanto lasciato a terra, sui rami più alti dei posti più scoscesi, dai raccoglitori e dagli storni.