di Angelo Alfani
È indubitabile che il nostro Paese sia attraversato da pulsioni fasciste. È altrettanto indubitabile che paventarlo, ingigantendolo, non può costituire un alibi per una sinistra che ha smarrito la bussola e per questo è evaporata, si è “dissipata”. Parlarne, comunque, è d’obbligo.
Lo faccio ricordando la figura di Pietro Alfani, antifascista e recordman come sindaco di Cerveteri. Originario delle Marche, arrivò in paese alla fine dell’Ottocento, assieme ad un numeroso gruppo parentale, dopo aver sostato alcuni anni a Bracciano. Una famiglia dal solido legame con la sinistra massimalista, da sempre, al punto che alcuni si iscrissero al partito comunista d’Italia.
Nell’Ottobre del 1920 la maggioranza delle quattrocento famiglie cervetrane lo elesse sindaco sognando la realizzazione della parola d’ordine: ‘La terra a chi la lavora’.
A seguito della completa fascistizzazione del Paese il consiglio comunale del paesino etrusco, così come altri, venne sciolto. In pochi mesi il repulisti dei rossi, ad iniziare da quelli annidati nelle maglie del Comune, era bello che realizzato.
Le elezioni del sei di Aprile del 1924, grazie alla legge Acerbo, suggellarono la vittoria del partito del Duce.
Pochi giorni prima, i più neolitici tra i neri locali, allucchettati a doppia mandata col Principe, decisero di organizzare una spedizione punitiva. Il manipolo si recò alla terra degli Alfani, al Sorbo, pensando di sopraffarli e purgarli.
Enorme fu la sorpresa nel trovarsi di fronte un gruppo altrettanto agguerrito e dotato di manici di zappa e vanga.
Fu un corri, para, chiappa e pija. I neolitici ne presero talmente tante che furono caricati a spalla sul carretto. Scortati dai sovversivi vennero parcheggiati in piazza. Sparirono dalla circolazione per giorni, pur non rinunciando a denunciare l’aggressione.
La retata dei carabinieri avvenne di prima mattina.
Così la racconta l’Unità:
“Nella notte precedente la domenica elettorale, venivano tratti in arresto, in Cerveteri, l’ex sindaco Pietro Alfani, con gli altri componenti la famiglia: Luciano, Angelo e Giuseppe, nonché certo Basilio Frattari e Achille Di Giuseppe, sotto la gravissima imputazione di duplice mancato omicidio contro due fratelli G. e A. B., squadristi del fascio locale, nonché di detenzione di una bomba.
Ma oggi, su richiesta del Procuratore del Re, tutti gli arrestati sono stati prosciolti da ogni imputazione e rimessi in libertà”
Fu un ventennio nero come la pece. Rara la solidarietà, tanto che Pietro si procurò una pistola madreperlata, da femminuccia, che teneva sempre nel panciotto.
Dopo la caduta formale del regime, nel luglio del 1943, Pietro ritornò primo cittadino per acclamazione: conosceva bene i suoi concittadini, al punto da sapere intravvedere germogli di possibile riscatto anche tra gli spasmi plebei di un paese stremato.
Il problema più drammatico era quello della mancanza del pane: il mercato nero tirava e la farina e l’olio erano oro, se smerciati nella Capitale. Assieme a Toto decise di recarsi, con un calesse, a Bracciano dove vantava amicizie e soprattutto credito. Convinse il molinaro e, caricati i sacchi di farina, riprese la strada di casa.
Un aereo alleato, di ritorno dai bombardamenti sulla Tuscia, iniziò a mitragliarli all’altezza di Cupinoro. Si racconta che Pietro tirò fuori la pistola e cominciò a sparare contro l’aereo americano.
Fu l’unica volta che la femminuccia fece fuoco.
A metà settembre truppe tedesche salirono i giardini, togliendoselo dalle scatole.
Tornò Commissario Prefettizio nel dopoguerra fino alle elezioni del ’46.
Rieletto nel maggio del ’56 e poi di nuovo nel ’60. Morì sindaco il 5 Novembre del 1961.