Necropoli depilate e boschi desertificati
di Angelo Alfani
La foto, scattata alla metà degli anni sessanta, riprende una coppia di ragazzini dietro l’arcaico trenino, utilizzato dalla fondazione Lerici, per spostare quintali di terra e detriti in modo da rendere visibile la necropoli del Laghetto.
A memoria personale questo sperone tufaceo, che precipita assieme a quadroni e pezzi di un tumuletto nella valle del Manganello, poco più che un interessante pianoro gruvierato, è reso affascinante dalla presenza di querciole, ferule, sparicine, giunchiglie ed erica, fichi selvatici, ginestre, erbe delle più svariate e dagli intensi profumi.
Un continuo gracidare, interrotto da Improvvisi tuffi di ranocchie tra le cannucce delle pozze di acqua piovana inverdita da patina vegetale che diventa oro quando la luce del sole la penetra, sguizzanti lucertole e sempre più rare bisce, danno vita ad un luogo altrimenti di morte.
Pochi giorni fa ho accompagnato una giovanissima amica a rivisitare i luoghi sacri.
Ho avuto l’impressione che la smania di depilazione da ceretta brasiliana abbia fatto breccia nella testa dei tanti gruppi di volontari.
La moda proveniente da tempi più schizzinosi, che ha imposto la soluzione niente più peli alle donne ed ai maschi occidentali, mi pare abbia preso la mano nel tagliare ossessivamente lo spontaneo naturale.
Ritengo che le Necropoli cervetrane depilate perdano ogni qualsivoglia attrattiva.
La via sepolcrale ne è infelice esempio: dei pini e dei cipressi che accompagnarono balilla ed avanguardisti, coppiette, Bassani e centinaia di migliaia di altri in visita, molti sono morti e non più rimpiazzati.
Stessa sorte, anzi peggiore, rischia di fare la splendida pineta che avvicina a Ceri.
La foto mostra la pineta negli anni cinquanta, con i due capannoni messi in piedi per ospitare profughi dalle zone povere, prima dell’assegnazione delle terre.
Per ragioni che non comprendo venne ceduta dall’Ente Maremma ad un cooperativa locale.
Incuria decennale ne ha lasciati morire alcuni ad altri ha pensato il tornado, diventando legnatico.
E’ un fatto che si è desertificata un’oasi da fare invidia.
Non so chi abbia il dovere morale di ripristinarla: certamente la Comunità ha l’obbligo di farsi sentire per non essere deprivata di un altro bene collettivo.
A fronte di una cornice a dir poco avvilente che racchiude i nostri beni archeologici, monumentali e paesaggistici, ritengo che far conoscere il pensiero di un grande scrittore e polemista come Leonardo Sciascia possa far riflettere.
“Sono dell’opinione che quel tanto che del passato resta di muri, archi e colonne, in monumenti e documenti, lo si debba all’ incuria dei secoli, dalla fine dell’impero romano all’unita d‘Italia; mentre alla cura e protezione nell’ultimo secolo legiferata e istituzionalizzata siano da attribuire le devastazioni più irreparabili, e le più efferate (tanto più efferate,ovviamente, quanto più diffusa e avvertita veniva facendosi la coscienza di dover curare e proteggere).
Per secoli il monumento godette di una specie di indivisibilità. Fu utilizzato per altre costruzioni o incorporato in esse; o fu lasciato dov’era oggetto di un vago culto del bello e dell’antico, senza particolari cure e senza rapaci o scientifiche attenzioni. Qualcuno si salvò così, integralmente o quasi, di altri si salvarono i pezzi o le strutture. L’utilizzazione o l’abbandono furono comunque le condizioni per cui gli antichi monumenti, almeno parzialmente, si salvarono. Ma appena cominciarono a diventare visibili, ad essere considerati pubblico bene, patrimonio civile, inalienabili se non per furto, intoccabili se non per restauro, ed insomma custoditi direttamente o indirettamente dallo Stato, protetti dalle sue leggi, ecco che incominciarono i guai”.