“NARCISISMO, VITTIMISMO, PESSIMISMO” NELL’ERA DIGITALE

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Il Romano Pontefice rammenta che narcisismo, vittimismo e pessimismo sono i veri nemici del dono e che è indispensabile avere sempre uno sguardo critico sull’impiego dei mezzi informatici.

di Antonio Calicchio

Al pari di qualunque accadimento epocale, così la pandemia ha scompaginato abitudini di colpo anacronistiche, a seguito della comparsa di nuovi fenomeni, di nuove volontà, di nuovi progetti da compiere. Sempre più persone – giovani o adulte che siano – manifestano l’esigenza di un cambiamento di vita, personale e professionale. Emergono “specialisti”, quali i “life escape coach”, che si onerano di fornire consulenza ed assistenza verso coloro i quali intendono fuggire dalla propria vita, in vista di raggiungerne un’altra. Programmare un differente futuro costituisce, ormai, la moda corrente, tant’è vero che numerosi sono coloro i quali si auspicano che una nuova città, una nuova professione possano appagare quella frustrazione nei riguardi del presente che il covid ha notevolmente incrementato. Google, arcinoto motore di ricerca per internauti e non, trasformatosi in “albero dei perché” digitale, presenta, fra le ricerche maggiormente eseguite, in tutto l’Occidente, richieste di questo letterale tenore: “E’ possibile cambiare vita a trenta, a quaranta, a cinquant’anni?” o “Che fare per un rinnovamento radicale della propria vita?”.

Forse, tra centinaia di migliaia di soggetti protesi ad ottenere una esistenza differente, vi sarà proprio chi, avvenuto il cambiamento, potrà raggiungere un nuovo benessere, fisico e psicologico. Ma sarà parte di una minoranza, perché tutti gli altri, ossia tutti coloro i quali avranno visto demolirsi la loro vita passata, in conseguenza del nuovo, subiranno malauguratamente una delusione.

Insomma, il nuovo ambito lavorativo, la nuova città risulteranno utili per qualche tempo, ma, successivamente, l’insoddisfazione riapparirà, con la consapevolezza che non è nella fuga verso la novità che si potrà affrontarla definitivamente.

Del resto, una grave lacuna – soprattutto della società odierna – è quella di definire le cose col nome sbagliato oppure assegnare ad una causa un dato effetto, non di rado, più effimero in confronto al reale effetto che accade dentro sé stessi. E la causa, dagli albori della civiltà, è sempre uguale, e cioè la natura umana limitata e finita, con la inevitabile inquietudine di non riuscire ad esistenzialmente accettarla.

Per tale causa, tanto antica quanto il mondo, sono state proposte – volta per volta – fugaci e labili soluzioni, capaci unicamente di allontanare l’uomo da se stesso. “Vivere autenticamente con inarrestabile ricerca e curiosità”: questa è la “Domanda” delle domande, cui nessun motore di ricerca potrà mai offrire risposta. Sono ammirevoli coloro i quali non solo hanno un arcobaleno di colori e di interessi, all’interno del loro orizzonte intellettuale ed umano, ma sanno anche spaziare e cercare la bellezza e la verità dappertutto, in una società, come quella attuale, “malata” di banalità, di superficialità, di volgarità, di indifferenza. Occorre distinguere tra intelligenza e sapienza. L’intelligenza può averla pure un criminale, anche in misura spiccata! La sapienza, come dice il termine di origine latina, significa avere gusto, sapore; essa è una qualità più completa e profonda. L’elemento centrale, nell’intimo della esperienza umana e culturale, è di avere, quantomeno, una stilla di sapienza, di sapore. Platone, nel descrivere l’eredità del suo maestro, nella Apologia di Socrate, gli mette in bocca una frase che può essere declinata anche in maniera cristiana: “Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta”. Ovvero è necessaria l’inquietudine della domanda, dell’interrogazione, appunto, tenendo presente che, poi, sono importanti anche le risposte. Julien Green, scrittore cattolico francese, che ha attraversato tutto il Novecento e che aveva, in sé, la dimensione profonda del Cattolicesimo francese, da Pascal a Mauriac e a Bernanos, asseriva: “Finché si è inquieti, si può stare tranquilli”. E’ l’inquietudine agostiniana, che non significa essere agitati, frenetici, ma vuol dire incamminarsi lungo un percorso.

Pertanto, anziché cambiare vita, si torni ad essere veri indagatori della propria; e cosi, si cambierà pure il mondo. In questa prospettiva, non sarà necessario alcun cambiamento esterno, in quanto l’avventura si sviluppa entro la propria interiorità, che domanda soltanto di essere vissuta intensamente, coinvolgendo anche la relazione con l’altro.

Questa è la vita nuova, la quale invoca tutto il fervore di cui l’uomo è capace, fondato su un significativo desiderio: donare. Ciascuno è nato da un dono e cresciuto nel donarsi. In siffatto contesto, Papa Bergoglio si premura di osservare che tre sono gli antagonisti del dono: il narcisismo, il vittimismo e il pessimismo. Il primo fa eccessivamente idolatrare se stessi e le proprie qualità, fa compiacere solamente dei tornaconti individuali, fa ripiegare sui bisogni personali, indifferenti a quelli altrui, attraverso un estremo egoismo nei rapporti col mondo. Il vittimismo fa lamentare sempre degli altri e delle circostanze. Il pessimismo “è la consapevole impossibilità per l’uomo di conseguire mai il fine che la sua stessa natura lo spinge a proporsi”, affermava Croce. Esso trae la sua genesi da una concezione negativa e oscura del tutto, facendo rivoltare l’individuo contro il mondo, ma – paradossalmente – in maniera sempre inerte ed immobile, a causa della vanità del dono. Ed invece, il dono postula l’essenzialità dell’altro, come le neuroscienze hanno avuto agio di dimostrare: ed infatti, una mente solitaria cerca compagnia, similmente ad una mente affamata che cerca cibo. La qual cosa testimonia come la socialità rappresenti un bisogno primario della persona, analogamente al cibo.

Tuttavia, frequentare i social espone al rischio della sindrome del recinto, ovverosia di una sorta di cattività volontaria che spinge a non guardare al di là di se stessi. E la “cura” è assecondare proprio il tempo attuale, che è quello del Natale, è quello della festa dell’oltre, è quello, cioè del cuore e della mente aperti e diretti al dono. Se si guarda fuori dal recinto, allora si scorge il mondo, nella sua realtà concreta e non in quella virtuale, artificiale dei mezzi informatici, il cui uso influisce seriamente sui processi cognitivi ed emotivi, condizionando il pensiero. Non nel senso che essi suggeriscono cosa pensare, ma nel senso che modificano il modo di pensare, convertendolo da analogico (strutturato, sequenziale, referenziale) a digitale (generico, vago, globale, olistico). Mezzi informatici che, altresì, mutano il modo di fare esperienza, avvicinando il lontano e allontanando il vicino, ponendo in contatto non col mondo, bensì con la rappresentazione del mondo, trasmettendo una presenza priva di consistenza spazio/temporale, anchilosata nella simultaneità e nella puntualità del momento. E’ ben vero che non si può, ormai, respingere l’utilizzo di questi mezzi, poiché ciò si tradurrebbe in una esclusione sociale; però, è altrettanto vero che appare sempre più urgente prendere coscienza delle modificazioni che il nostro modo di pensare e di fare esperienza patisce. E di tutto questo dovrebbe accorgersi anche la scuola, che, oggi, si rapporta con giovani che hanno una conoscenza non appresa dalla lettura dei libri, ma acquisita dal computer o dal telefonino o dai social, in cui si svolge quel monologo collettivo per cui chi scrive dice ciò che potrebbe ascoltare da chicchessia e chi legge ascolta ciò che egli stesso potrebbe dire. Ed allora: esiste o no un pericolo di “obesità mediale” nell’era digitale?

Buone Feste, buon pellegrinaggio nel mondo!