Mostro di Firenze, sapremo mai la verità?

0
7100

di Antonio Calicchio

Questa è una storia di mostri; è una storia agghiacciante e terribile, a tal punto che, sebbene non si impieghi più il termine “mostro” nelle vicende di cronaca, tuttavia qua si è utilizzato ampiamente: si tratta della storia dei delitti del Mostro di Firenze che ha inizio il 14 settembre 1974, vicino a Firenze.  E’ notte, accanto ad un fiume vi è uno spiazzo nascosto, circondato da rovi, da cipressi e da viti, dove si trova un’autovettura, con due ragazzi a bordo, Pasquale e Stefania, di diciannove e diciotto anni. E’ sabato sera; improvvisamente, alcuni proiettili colpiscono Pasquale che muore sul colpo, altri Stefania che, ferita, viene tirata fuori dall’auto, trascinata nell’erba e accoltellata. I cadaveri vengono rinvenuti da un agricoltore della zona; giungono sul posto i carabinieri che avviano le indagini, ricostruendo le vite dei ragazzi e le loro ultime giornate, senza che, però, emerga nulla di rilevante. Il delitto viene ascritto ad un ignoto “maniaco sessuale” e le indagini si fermano. Per sette anni. Dopo di che capita qualcosa.

6 giugno 1981, è ancora un sabato sera. In una località di campagna, poco distante da Firenze, è ferma una vettura, con due ragazzi dentro, Giovanni e Carmela, di trenta e di ventuno anni. Il mattino seguente, un poliziotto – fuori servizio – nota la macchina ferma, col finestrino di sinistra sfondato. All’interno, vi è Giovanni, al posto di guida, senza vita e, fuori dall’auto, Carmela, supina, vestita. Qualcuno li ha ammazzati. Quando i carabinieri arrivano, scoprono qualcosa di spaventoso: l’asportazione completa del pube della ragazza. Dalle indagini si arguisce che i proiettili hanno lo stesso calibro, la stessa marca e la stessa serie di quelli che hanno assassinato Giovanni e Stefania, nel 1974. E il perito balistico scopre che a spararli è stata la medesima pistola. Sono trascorsi sette anni e i due delitti vengono collegati. Vi è un sospettato, di quelle parti, un voyeur. Racconta, alla moglie, dei particolari circa la morte di Giovanni e di Carmela. E fa questo domenica mattina, quando i particolari non sono noti; interrogato, cade in contraddizione e, il 15 giugno, viene arrestato, con l’accusa, dapprima, di falsa testimonianza, poi, di duplice omicidio. Ma non parla. E, nel corso del suo ostinato mutismo, succedono altri due omicidi.

23 ottobre 1981, quattro mesi dopo. Vicino a Prato, in un campo, vi è un’altra auto ferma, col finestrino sinistro sfondato. I due ragazzi si trovano fuori dall’abitacolo: Stefano, ventisei anni e Susanna, ventiquattro, alla quale viene asportato il pube. Chiunque sia stato, non può essere il sospettato che è ancora in galera, e che viene scarcerato e scagionato dall’accusa di omicidio. Stessa tecnica, quindi, stessa arma e stesso tipo di vittime. Si tratta non di un assassino qualsiasi, né di un maniaco che impazzisce all’improvviso e agisce in preda ad un raptus; si tratta, invece, di un serial killer. Fino ad allora di serial killer, in Italia, ve ne erano stati. Tuttavia, un concetto preciso di omicidio seriale, tanto nell’immaginario degli inquirenti, quanto in quello della pubblica opinione, ancora non esisteva. E di un serial killer, in Italia, fino ad allora, non si conosceva che un aspetto, e cioè che avrebbe ancora colpito.

19 giugno 1982, sette mesi dopo. Sulla provinciale, a qualche decina di chilometri da Firenze, vi è uno slargo nascosto dalla vegetazione: Paolo e Antonella, vi si sono fermati con il loro autoveicolo quando vengono colpiti. Paolo, ferito, riesce a mettere in moto la macchina, si allontana, ma attraversa la carreggiata e finisce con le ruote posteriori nel fosso dalla parte opposta della strada. Bloccato. Quando arrivano i carabinieri, Paolo è ancora vivo, ma morirà all’ospedale, senza riprendere conoscenza, mentre Antonella è già morta, senza subire alcuna mutilazione. Però, i bossoli sono gli stessi.

A questo punto, un maresciallo dei carabinieri ricorda che, quand’era in servizio presso la Compagnia di Signa, quattordici anni prima, era accaduto un delitto, compiuto con pistola stesso calibro.

21 agosto 1968. Un uomo, che dorme a casa sua, alle due di notte, in una località vicino a Signa, viene svegliato da una scampanellata, si affaccia alla finestra e vede un bambino che gli domanda di aprirgli la porta e di essere riaccompagnato a casa perché la madre e lo zio sono morti in macchina. Questa viene rinvenuta in uno spiazzo nascosto, e dentro vi sono un uomo e una donna, uccisi. Per tale delitto, l’assassino viene trovato ed è il marito della donna ammazzata, ma l’arma non c’è. Viene condannato a sedici anni e al momento dei delitti del Mostro è ancora in carcere.

Il fascicolo del delitto del 21 agosto 1968 viene riaperto e al suo interno vi sono, inspiegabilmente, bossoli e proiettili sparati quella notte: inspiegabilmente, giacché, dopo una sentenza definitiva, le prove fisiche dovrebbero essere distrutte per legge. I bossoli e i proiettili del fascicolo, posti a confronto con quelli dei luoghi dei delitti del Mostro, evidenziano gli stessi segni. Non può essere Stefano Mele, il marito della donna assassinata, l’autore degli altri omicidi dal momento che era in carcere il quale aveva dichiarato, rispetto al delitto della moglie, essergli l’arma stata fornita da un altro amante di costei: Francesco Vinci, d’origine sarda. Nel 1974, quando sono stati uccisi Stefania e Pasquale, si trovava poco lontano dal luogo del delitto; e, dopo l’omicidio del giugno 1982, si è disfatto della sua macchina. Poi, la pistola, di cui parlava Mele, calibro 22, calibro identico a quella utilizzata dal Mostro, torna ad accusare Vinci. Questi diviene una pista che gli investigatori iniziano a prendere in esame e, il 7 novembre 1982, viene sottoposto ad indagine per i delitti del Mostro, ivi incluso quello del 1968. Ma un anno dopo, il Mostro colpisce ancora.

9 settembre 1983, un anno e tre mesi dopo. Nei pressi di Scandicci, in un furgone, fermo in uno spiazzo, venerdì sera, vi sono due ragazzi tedeschi, di ventiquattro anni che vengono colpiti. Siccome si trattava di due maschi, l’autore non infierisce, ma lascia sul posto i bossoli calibro 22; Vinci è ancora in carcere, pertanto: o il mostro non è lui o vi è qualcuno che uccide per lui. Vengono tratti in arresto il fratello e il cognato di Mele e, poiché gli indizi sono pochi, dopo qualche mese, vengono scagionati. E, intanto, la psicosi, la paura, il terrore del mostro sono dilaganti, tant’è vero che in ogni dove vi sono quei manifesti inquietanti, con due occhi minacciosi sulla scritta Occhio, ragazzi!, non appartatevi, non nascondetevi, è pericoloso, c’è il mostro, i cui reati non si erano mai verificati in Italia.

30 luglio 1984, nove mesi dopo. Claudio e Pia, sempre nelle vicinanze di Firenze, in macchina, in uno stretto viottolo sterrato, subiscono la stessa sorte delle altre vittime, con l’aggiunta dell’asportazione del seno sinistro, oltre alla mutilazione del pube, a Pia. E i carabinieri trovano i bossoli dello stesso calibro, della stessa marca e della stessa serie dei delitti precedenti.

8 settembre 1985, un anno e un mese dopo. Qualche decina di chilometri da Firenze, in uno spiazzo, due ragazzi francesi hanno piantato una tenda e vengono colpiti: Nadine muore subito e Jean-Michel, ferito, scappa, ma non ce la fa e viene ucciso. Nadine viene mutilata del pube e del seno sinistro, e ricoperta. Nascosta, per la prima volta.

Dopo questa sequela di omicidi, dal 1968 al 1985, il Mostro si ferma, ma le indagini proseguono comunque. Nel 1984, a Firenze, è sorta la Sam, la Squadra antimostro, formata da poliziotti e da carabinieri; gli inquirenti intendono procedere in maniera moderna e scientifica, affidando ad un gruppo di periti il compito di tracciare un profilo del possibile Mostro. Sulla scorta delle notizie avute e delle ricerche sui serial killer, forniscono e delineano un ritratto, secondo cui il Mostro è una persona di sesso maschile, fra i trentacinque e i quarant’anni, alta un metro e ottantacinque, di matrice culturale anglosassone e con menomazioni sessuali, capace di utilizzare armi da taglio, uccide a scopo di libidine e, quando agisce, è da solo. Ma chi è? Gli investigatori, i giornalisti, i parenti delle vittime si impegnano per raggiungere la verità. In particolare, i genitori di Pia che cercano di collaborare alle indagini, parlano coi giornalisti, coi poliziotti, parteciperanno alle udienze dei processi.

Nel febbraio 1992, il capo della Squadra antimostro rivolge un appello in televisione, avendo in mente una persona che non corrisponde al profilo psicologico tracciato dal gruppo dei periti, anzi, è proprio un’altra cosa: è un agricoltore di Mercatale, basso e tarchiato e si chiama Pietro Pacciani. Ha sessantasette anni, con precedenti penali, che rimontano al 1951, quando viveva nel Mugello e viene condannato a tredici anni, per omicidio. Quando esce, si sposa e ha due figlie. Nel 1987, viene nuovamente condannato a quattro anni e tre mesi, per abuso sessuale nei confronti delle figlie. Si trova ancora in carcere allorché, nell’ottobre 1991, viene raggiunto da un avviso di garanzia; è indagato per gli omicidi dal 1974 al 1985, tranne quello del 1968. Secondo la Procura, il Mostro è lui. Nell’inchiesta sui delitti del Mostro, Pacciani è entrato fino dal 1985, a seguito di uno screening, una ricerca effettuata col computer su una lista di persone con precedenti specifici e caratteristiche sospette, e anche dopo una lettera anonima. E a suo carico vi è una serie di indizi. Da quando è uscito di prigione, dopo aver scontato la pena per la violenza alle figlie, Pacciani è sotto sorveglianza, spiato, intercettato. La Squadra antimostro esegue molteplici perquisizioni in casa sua. La prima, risale al 1990: prove, indizi, anonimi, testimonianze, perquisizioni. Non si tratta di un processo semplice, quello che si apre alla Corte d’Assise di Firenze, il 19 aprile 1994. Dura sette mesi, per quarantacinque udienze ed è un processo che alterna momenti di involontaria comicità a quelli di incredibile crudezza: è il processo ai delitti del Mostro di Firenze. Ma chi è il Mostro di Firenze? E’ Pacciani? Il 1° novembre 1994, la Corte d’Assise lo condanna a quattordici ergastoli, in ordine a quattordici omicidi, verificatisi tra il 1974 e il 1985. Per quello del 1968, mancano le prove che l’abbia commesso Pacciani, anche se, ad avviso della Corte, sarebbe da attribuire a lui: è un punto poco chiaro che lascia numerose perplessità. Soprattutto, la sentenza contiene una novità. Almeno in uno degli omicidi – sostiene la Corte – l’ultimo, quello dei due ragazzi francesi, egli non era solo. Il 29 gennaio 1996, si apre il processo d’appello che si conclude il 13 febbraio, con l’assoluzione per tutti i quattordici omicidi, anche dietro richiesta del p.m. E l’Italia si divide tra innocentisti e colpevolisti. Ma dov’è la verità? Chi è il Mostro?

Pare che il tutto sia finito in un vicolo cieco, ed invece no. Già al termine del processo – come in un romanzo di John Grisham, come in un legal thriller all’americana – era avvenuto un colpo di scena; poco prima della sentenza, la Procura aveva presentato una novità. Quattro testi, menzionati con le lettere dell’alfabeto greco Alfa, Beta, Gamma e Delta che avevano dichiarato aver visto Pacciani uccidere i ragazzi francesi, unitamente ad un altro uomo di cui avevano fatto nome e cognome: Pietro Vanni. Ma, a causa di una questione di natura procedurale, il presidente aveva respinto le nuove testimonianze e Pacciani era stato mandato assolto. E da lì parte l’indagine intorno ai delitti del Mostro, da Alfa, Beta, Gamma e Delta e da Vanni, arrestato per omicidio. Come si è giunti a quel punto?

Dal 15 ottobre 1995, alla Questura di Firenze si è insediato un nuovo capo della Squadra mobile il quale, nel rileggere i documenti e nel riesaminare le dichiarazioni testimoniali, riscontra qualcosa di interessante. Due coniugi che la notte dell’omicidio di Pia e Claudio vedono allontanarsi due macchine dal locus commissi delicti. Un signore americano che, la notte dell’omicidio dei due ragazzi francesi, vede un’auto che tenta di nascondersi, un’auto con a bordo due persone. Due coniugi che, poche ore prima del delitto, notano un’auto, con due uomini che guardano nella direzione del luogo in cui si trova la tenda dei ragazzi francesi. Ed ancora, altre testimonianze di soggetti che non si conoscevano fra loro e che già allora erano andati a testimoniare che sui luoghi dei fatti, e intorno all’ora degli stessi, vi erano più auto e più persone. Dalle descrizioni, una di esse pare corrispondere a Pacciani. E l’altro uomo chi è? Dopo esami delle carte, intercettazioni delle abitazioni degli amici di Pacciani e dei luoghi da essi frequentati, emergono elementi significativi. Emergono Alfa, Beta, Gamma e Delta. Il teste Alfa è Fernando Pucci e asserisce aver assistito alla scena dell’omicidio dei ragazzi francesi, vedendo Pacciani e Vanni. Con Pucci, vi era, altresì, il teste Beta, Giancarlo Lotti. E a vedere Alfa e Beta, sul luogo del delitto, era stata una donna, insieme ad un suo amico: essi, per la Procura, divengono i testi Gamma e Delta. Lotti, messo alle strette, confessa. Era presente, per fare da palo a Vanni e Pacciani, portandosi dietro anche Pucci, senza che questi sapesse ciò che sarebbe accaduto. Anche Lotti, secondo la Procura, è uno dei “compagni di merende”. E chi sono i compagni di merende? Dalle indagini e dalle testimonianze scaturisce un mondo caratterizzato non soltanto da perversioni sessuali, da abusi, da violenze, da una micro banda a tutti gli effetti, ma anche da prostitute, da protettori, da pervertiti, da casolari sperduti. Un mondo con orride abitudini. Una prostituta, che ha avuto una relazione con Lotti, riferisce di incontri a casa di un santone, vicino al luogo dell’omicidio dei ragazzi francesi, e parla di riti, di orge, di magia nera. Questo, sono, i compagni di merende? Il 20 maggio 1997, ha inizio, presso la Corte d’assise di Firenze, il processo contro di loro. Vanni viene accusato degli ultimi cinque delitti, Lotti degli ultimi quattro. Ad essi si è aggiunto un altro soggetto, chiamato in causa da Lotti ed accusato dei reati del 1981 e del 1985. Manca Pacciani. Il 12 dicembre 1996, la Corte suprema di cassazione ha annullato la sentenza che l’aveva prosciolto. E’ accusato, anch’egli, degli ultimi cinque omicidi, ma dovrà essere giudicato in altro processo. Il 24 marzo 1998, dopo cinque giorni di camera di consiglio, la Corte d’assise condanna Vanni all’ergastolo e Lotti a trent’anni. Assolve la persona chiamata in causa da Lotti, per non aver commesso il fatto. Sentenza sostanzialmente riconfermata il 31 maggio 1999. Ergastolo a Vanni, per gli ultimi quattro omicidi, ventisei anni a Lotti. E Pacciani? E’ defunto. Anche in questo caso, la sentenza divide il Paese. Mancano ancora dei delitti all’appello; manca il delitto del 1968. Ogniqualvolta si giunge ad un punto, in questa bruttissima storia che incute sgomento, arriva un’altra ipotesi che espande l’orizzonte, schiudendo scenari sempre più orripilanti. A detta della Procura e del capo della Squadra mobile, i compagni di merende non erano soli. La nuova fase delle indagini sui delitti di Firenze si muove in questa direzione. Esisteva qualcuno che guidava e copriva le condotte dei compagni di merende? Un gruppo di persone, una setta di riti esoterici: la Procura e il capo della Squadra mobile ritengono, questa, una seria pista, in virtù di alcuni motivi, come, ad es., la ritualità dei delitti. E l’ipotesi della setta esoterica era già stata presa in considerazione, nel 1984, benché la polizia ne abbia notizia solamente nel 2001.

Poi, un altro elemento, raccapricciante e sospetto, ossia quello relativo ai soldi: ed infatti, il patrimonio di Pacciani e quello di Vanni sono molto sostanziosi. Chi ha dato loro tanti soldi? Secondo la Procura e la polizia, persone ricche, membri di una setta potente che manovra un manipolo di soggetti, come i compagni di merende che agiscono per denaro e per libidine: tre moventi, dunque, denaro, libidine e ritualità esoterica. Vi è chi non è di questa idea, come la difesa dei compagni di merende. Altri affermano, invece, trattarsi di un serial killer, ma un serial killer che ha agito da solo o in gruppo?

Ipotesi, perizie, controperizie, piste investigative che vanno in senso contrario. E misteri: ad es., il delitto del 1968, è collegato o meno coi delitti del Mostro? Per la Procura, la polizia e i tribunali che hanno condannato i compagni di merende, quel delitto non ha alcun legame con gli omicidi del Mostro, se non per il fatto che la vittima era una coppia e che l’arma era una calibro 22. Misteri, ipotesi, piste investigative. Relativamente ai delitti del Mostro, sono stati instaurati vari procedimenti: a carico di un carabiniere, di una donna. E, poi, vi è un’ulteriore ipotesi, quella di un medico annegato, nel 1985, nel lago Trasimeno. Misteri, dietro misteri.

Il padre di Pia muore sul marciapiede dinanzi alla Questura di Firenze, stroncato da un infarto, il 9 dicembre 1998, mentre va a ritirare il mensile che il sindacato di polizia gli dava per vivere in quanto, nella sua battaglia per la verità, aveva perduto tutto: soldi, casa, salute.

L’inchiesta sui delitti del Mostro di Firenze rappresenta una storia di omicidi tra certezze e leggende. E il proiettile rinvenuto qualche settimana fa, consegna agli inquirenti un elemento in più da analizzare, sotto il profilo balistico e genetico, così da dare ulteriore impulso ad una indagine infinita. Per questo motivo, occorre continuare a cercare la verità, occorre sapere tutta la verità su questa terrificante storia: la storia dei delitti del Mostro di Firenze.