Blitz della Guardia di finanza
di Felicia Caggianelli
Mimica facciale irresistibile, ritmo incalzante, tempi comici impeccabili. Da ieri, e fino a domenica 2 aprile, al Teatro degli Audaci di Roma, si torna a ridere con l’esilarante spettacolo “Chiedo i danni”, di Grazia Scuccimarra. Attrice che, preso atto del fatto che tutto quello in cui credeva e in cui si è spesa è andato in frantumi, non demorde e come una sorta di Pollicina, raccoglie quello che resta dei suoi sogni e cerca di riparare il puzzle della società e di tutto quanto lievita intorno, condendo il tutto con pillole di ironia e satira pungente. Fin dall’adolescenza ha coltivato la passione per la scrittura. A diciassette anni era corrispondente da Teramo per il Corriere dello Sport. Laureata in Giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma, ha insegnato Diritto ed economia nelle Scuole superiori dove ha affinato le doti di grande comunicatrice. Una delle sue grandi passioni è stata quella per la musica. Ha iniziato la sua carriera nel Folkstudio in Trastevere trampolino di tanti cantanti come De Gregori e Venditti. Galeotto fu l’incontro con il proprietario del locale, il signor Cesaroni, che dopo averla ascoltata cantare le dà la spinta nell’indirizzare e valorizzare la vocazione per il cabaret. Al teatro approda tardi. All’età di 32 anni, sposata e con due figli, dopo varie peripezie, affitta il teatro Leopardo a Trastevere e comincia a esibirsi portando in scena il suo primo lavoro teatrale “Successo”. Di lì in poi la carriera teatrale è un divenire incalzante sorretta dal gradimento della critica e del pubblico che non l’hanno mai abbandonata.
Come si è riscoperta attrice?
“La recitazione l’ho scoperta tardi. Io nasco come autrice. Ho iniziato scrivendo poesie e successivamente sono approdata alla prosa. La poesia ha retto poco dato il mio sguardo attento sulla società. Non nascondo però che il mio sogno era diventare una giornalista sportiva e in parte si è avverato. A 17 anni, infatti, ho seguito un intero campionato. Dopodiché mi sono successe delle vicende poco piacevoli che mi hanno fatto desistere. La scrittura non l’ho mai abbandonata anche se nel frattempo ho continuato a studiare; mi sono laureata e sono diventata insegnante di diritto ed economia. Scrivevo, ma nessuno voleva interpretare i miei testi. Tutti ci volevano rimettere le mani. Chi ci voleva mettere una donna nuda, chi un corpo di ballo. Parliamo degli anni settanta. Erano anni da…bere. Tutti nani e ballerine. Così ho detto: fermi tutti, lo interpreto da sola. La mia unica certezza era quella di non essere mai salita prima di quel momento su di un palcoscenico e di non avere mai preso lezioni di recitazione o di dizione”.
Cos’è che l’ha salvata?
“Penso il mio senso d’osservazione. Io sono abruzzese, ho iniziato a capire quanto parlassero male gli abruzzesi e ho corretto la mia dizione e il mio accento cercando di eliminare ogni ‘bruttezza’ e perlomeno ho parlato una lingua normale. Il primo spettacolo si intitolava: Successo. Analizzavo le strade che venivano utilizzate per arrivare comunque al successo. Qualsiasi tipo di strada. E da allora ho scritto ben 27 spettacoli. Mi ritengo una persona molto fortunata perché ho debuttato in tempi in cui c’era una curiosità da parte della critica e da parte dei giornali. C’erano i giornalisti alle prime teatrali. Oggi non ci sono più. Oggi ci sono quelli che si fanno passare le veline, che obbediscono ad ordini; non c’è più critica teatrale, nessun giornalista va in teatro a fare una critica da pubblicare. Sul giornale si parla solo di televisione, laddove è tutto finto, costruito, falso, tutto vuoto perché la televisione che abbiamo altro non è che una scatola vuota che per fortuna ultimamente si è riempita grazie alle performance di Gigi Proietti, ma quanti anni sono passati prima che rivedessimo Proietti fare uno show bellissimo? I miei tempi erano tempi veramente speculativi. Si andava alla ricerca di visi nuovi, c’era curiosità per gli altri. Io, la sera che ho debuttato per la prima volta a Teatro ero una emerita sconosciuta ma ricordo che erano presenti i giornalisti di importanti testate quali L’Unità, Paese sera, Il Messaggero e Il Tempo. E non mi hanno abbandonata mai più. Oggi, poveri giovani che intraprendono questo percorso, eppure c’è tanta gente meritevole. Io mi ritengo una persona privilegiata e poi sono anche stata ‘bravina’ perché sono riuscita a mantenere per quasi 40 anni la mia attività sempre in maniera dignitosa. Veramente integra”.
Possiamo dire quindi che il teatro è il suo amore artistico?
“Decisamente sì. Mi piace anche stare in platea, io sono nata lì. Il fatto che io sappia recitare poi non vuol dire che mi piaccia. Io mi sento meglio in platea a guardare gli altri. Godo in platea ed è lampante il fatto che mi piace anche il palcoscenico, mi ci diverto anche perché diversamente non riuscirei ad essere comunicativa con gli altri. Fermo restando che non era il mio obiettivo. Mi ritrovo attrice per caso”.
Lei porta in scena i paradossi della società con grande ironia e chiarezza. Pensa che la risata sia ancora un mezzo per veicolare certi messaggi e per far riflettere?
“Sì, ma lascia il tempo che trova. Anzi io sono diventata critica nei confronti del concetto di satira; mi sto accorgendo che il popolo consuma tutto nella satira perché c’è qualcuno che dice quello che pensi. E allora ti senti protagonista, senti che c’è qualcuno come te, ti senti gratificato e sbollisce anche la rabbia. Secondo voi: perché il potere tiene tanto alla satira e non si arrabbia mai? Perché è l’oppio dei popoli. Prima era la religione. Adesso da noi non lo è più. Adesso è la satira che è diventata sacra. Ma se ci soffermiamo a riflettere ci accorgiamo che di sacralità non ha nulla”.
Lei è stata protagonista del cambiamento che il settore del teatro ha subito. Come commenterebbe lo stato di salute del teatro?
“Il teatro è malato. Non c’è una salute del teatro. Già fisicamente i teatri italiani, per lo meno da Roma in giù sono lasciati a se stessi. Da Roma in su il discorso è completamente diverso perché diversa è l’interpretazione che si dà della politica e soprattutto nell’ambito della politica è diversa l’interpretazione che si dà alla cultura. Basta andare nei teatri del nord e ci si accorge che anche il più piccolo paese ha un gioiellino di teatro. Da noi se giri vedi degrado ed abbandono. Siamo diventati un popolo di straccioni. Straccioni in senso generale non solo di stracci di vestiti e di apparati, bensì miseri dentro. La miseria è la povertà di valori. E mi dispiace perché non lo siamo. Saremmo un bel popolo se solo ci facessero credere in noi. Io come insegnante ricevo ancora oggi attestazioni di gratitudine da gente che è stata mia alunna quaranta anni fa e ancora oggi quando mi incontra mi ringrazia dicendomi che le ho regalato la vita. Nella vita bisogna essere costruttivi specialmente con i giovani, che oggi non se la passano bene, perché è vero che sono il nostro futuro ma un buon futuro possiamo ottenerlo solo lavorando bene nel presente”.