Rubrica I VASI PARLANTI di Ennio Tirabassi
É noto che il miglior metodo di osservazione per comprendere i fenomeni religiosi di un popolo è quello filologico: è necessario, cioè, raccogliere il maggior numero di testi possibili, orali e scritti, per avere una documentazione sufficiente che permetta l’interpretazione dei dati.
Per una civiltà morta, come quella etrusca, che ci ha lasciato pochi documenti, scritti per di più in una lingua poco comprensibile, le fonti latine e greche hanno una funzione sostitutiva. Un altro tipo di approccio è lo studio dei monumenti figurati con illustrazioni relative a miti o a divinità. Gli Etruschi, che la letteratura latina ci presenta come un popolo dedito alle più diverse forme di superstizione e di culto, avevano elaborato una cospicua scienza divinatoria la quale, come si è visto, era oggetto di una vera e propria letteratura.
Livio definisce il popolo Etrusco molto religioso, forse il più religioso dei popoli. Furono i primi a costruire un’immagine antropomorfa degli Dei, probabilmente influenzati dai contatti con il mondo greco. Tra le divinità maggiormente adorate, Menrva era senza dubbio una delle principali degli Etruschi, presto identificata con la Atena dei Greci. Una dea con lo stesso nome, Minerva, era venerata anche dai Romani e da altri popoli di lingua latina.
Il significato del nome sembra legato alla divinazione: secondo le fonti latine significava avvertire in anticipo. Considerata inoltre divinità della lealtà, della lotta, delle virtù erotiche. Per Menrva l’animale sacro era la civetta, talvolta il gufo. Secondo il mito, era figlia di Giove, nata dalla sua testa. E a differenza della corrispettiva dea greca Atena, al quanto maschile e combattiva, Minerva assunse nella cultura romana una veste più femminile e dolce. La vediamo anche nel giudizio di Paride, tra le più belle.