di Angelo Alfani
Le due foto sono dei primi anni sessanta: i più spensierati e felici vissuti dalla comunità cervetrana.
Una allegria diffusa, che si spandeva per tutto il Paese, intensa, quanto e più del profumo dei petali di rosa, dei gialli fiori della ginestra, e della menta a fine processione.
A Cerveteri, infatti, il passaggio dagli anni cinquanta, segnati ancora da situazioni di percepibile miseria e profonde diseguaglianze, a quell’epoca ingorda di benessere che corse, a scapicollo, verso il boom del Sessanta (quantomeno fino all’apparire della lugubre parola congiuntura), non avvenne con una cesura traumatica, di quelle che lasciarono ferite aperte, sanguinolenti in gran parte della Penisola.
Sarà stato per la sua posizione isolata, su in collina, fuori dalle rotte più battute dal progresso consumistico, che le trasformazioni colossali del modo di lavorare e di vivere, di produrre e di consumare, di pensare e di sognare, una vera rivoluzione dei costumi, avvennero, a Cerveteri, molto lentamente.
Un progresso lento ma continuo di conquiste di spazi di libertà per i giovani, per le donne, lasciarono che il nocciolo duro della paesanità si conservasse.
Tutto girava nel giusto verso.
Il sabato e la domenica la piazza era gonfia di persone. I caffè, in continuo aumento, occupavano coi loro tavolini di dura latta e le sedie di formica verde, spazi sempre più larghi che circondavano quasi interamente il Palazzo comunale. Un cicaleccio continuo, una ordinazione dietro l’altra che, improvvisati camerieri, cercavano di soddisfare in tempi ragionevoli per evitare male parole: la mancia, manco a parlanne!
Intere famiglie in bibita, o sgranocchianti le granite di caffè, innevate di panna, di Checchina e Oscare, o quelle di Pietro l’Etrusco che offriva frescura e sdilinquente profumo di carnosi fiori, sotto splendide magnolie.
I giardinetti erano ancora segnati da larghe e alte siepi di bosso e le poche panchine nascoste dalla verzura erano luoghi di ritiro amoroso. Un salire e scendere continuo di frotte di giovanotti: lunghe guardate scrutatrici tra cervetrani e cervetrane di là dalla folla, o lungo i marciapiedi affollati, facevano scattare intese, gelosie, rotture definitive: ‘Se vedemo dopo cena’, ’Se te rivedo fa il tenero co’ quella sciapetta te pio a carci sulli stinchi!
Mucchi di ragazzini, non ancora asserviti ad Eros, si tuffavano sulle siepi di bosso ed alzavano polveroni correndo a scapicollo per i vialetti terrosi e ghiaiosi.
Le fontane, ripulite costantemente dal muschio e dalla monnezza, schizzavano perennemente rinfrescando dalla calura. Di giorno erano spesso utilizzate per battaglie navali: piroscafi modellati con squame di pino. La notte, quelle da luna piena, erano riservate ai lupimmannari che, stracciandosi la camicia, mostrando il petto villoso, coi canini sporgenti dalla bocca infuocata, ci si buttavano nella vana speranza di alleviare la terribile arsura.
L’afflato dei maschi predatori, si consumava in estate, al mare dalle sabbie nere, come ai tempi delle Sabine. Stavolta si trattava di nepote di fagottare che si permettevano ‘na settimanella de sabbiature “che so ‘na mano santa pe’ l’ossa”. Era lì che i leoni etruschi si esibivano, mostrandosi.
A casa, su in collina, tornavano ad essere dei miti agnellini.
Il dodici di Aprile del sessantuno, un giovanissimo cosmonauta sovietico, al termine del primo e brevissimo volo spaziale, informò i terrestri: “Da quassù la terra è bellissima. Senza frontiere e confini”
Sì la Terra era bellissima ed anche Cerveteri lo era.
p.s.
Dedico queste poche righe ai tanti cervetrani che in questi ultimi mesi ci hanno lasciato.