LE ISTITUZIONI POLITICHE NON SONO UN’AZIENDA, CHE PUO’ ESSERE ESPOSTA ALL’ALEATORIETA’ DEL RISCHIO

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L’azzardo economico è permesso, giacché l’azienda, quando è corretta, pone a repentaglio la sua ricchezza e se stessa. Ma se l’impresa è lo Stato e le sue istituzioni, allora il capitale, messo a repentaglio, è la ricchezza collettiva, ossia, quella di tutti i cittadini. 

di ANTONIO CALICCHIO

“Le istituzioni politiche sono come un’impresa privata; e chi è capace di effettuare il consolidamento e il risanamento di un’impresa, sa pure guidare le istituzioni pubbliche”. Si tratta di un concetto che si sta affermando presso il mondo industrializzato – pure in Italia – alla cui origine si rinviene la figura tradizionale dell’azienda, la quale, per vigore, maestria, perspicacia, intraprendenza, sveltezza, può fare ciò che altri non riescono a fare. Una figura tradizionale – si diceva – di cui, negli anni Quaranta, dello scorso secolo, Schumpeter ravvisava il declino, ma che, negli ultimi decenni, è riemersa, tanto che, nei messaggi proposti dai media, la personalità del politico riveste un peso cruciale e l’immagine dell’impresa, soprattutto se è di successo, appare ancora fra le più adatte a sollecitare la mente delle persone.

Tuttavia, se si fa riemergere la figura tradizionale dell’impresa, allora non può trascurarsi quella caratteristica fondamentale dell’intrapresa capitalistica, rappresentata dal rischio. Ed infatti, l’impresa pone a rischio il suo capitale. Perché, se non rischiasse, allora farebbe dell’ordinaria amministrazione, non riuscirebbe a svincolarsi dalla routine, che, a causa della sua prevedibilità e calcolabilità, è realizzabile da molta concorrenza, senza generare utile. E l’utile tanto più cresce, quanto più aumenta il rischio. Il rischio è l’azzardo, la scommessa, l’avventura, che compongono il contesto in cui agisce l’iniziativa privata. Un’azienda che non rischia, è fallita prima di iniziare ogni attività. E, quindi, risulta idonea sol che, unitamente ai requisiti sopra esposti, abbia anche quello della fortuna.

Del resto, se l’intrapresa è affrancata dal rischio – e dalla relativa fortuna, o sfortuna – ed è resa calcolabile e prevedibile, allora l’impresa si commuta in un laboratorio scientifico, vale a dire in un’organizzazione della routine: la razionalità della scienza controlla non più solamente le tecniche impiegate per la produzione dell’utile, ma anche il complesso delle decisioni in cui si estrinseca l’attività imprenditoriale e da cui scaturisce il destino dell’impresa. L’intrapresa economica, dunque, non deve trasformarsi in un calcolo scientifico accessibile a chiunque e tale da annullare qualunque opportunità di investimento.

Ma se l’intrapresa capitalistica è obbligata a svilupparsi nell’ambito del rischio, allora cosa avviene quando si concepiscono le istituzioni politiche come un’impresa? Se ciò si verifica realmente e non come mero slogan elettorale, allora è inevitabile che si dia luogo ad uno Stato a rischio, così come si mostra perennemente a rischio anche l’impresa, che vada conseguendo i migliori profitti. O l’impresa si ferma, oppure è sempre a repentaglio. E i profitti tanto saranno maggiori, quanto più la si sarà messa in pericolo: ed infatti, l’intrapresa capitalistica è paragonabile al gioco d’azzardo, pur con le dovute differenziazioni.

L’azzardo economico è consentito, dal momento che l’azienda, quando è corretta, pone a repentaglio la sua ricchezza e se stessa. Ma se l’impresa è lo Stato e le sue istituzioni, allora il capitale messo a repentaglio è la ricchezza collettiva, ovverosia, quella di tutti i cittadini, i quali sono obbligati a rischiare il proprio capitale e devono sperare che chi è alla guida dello Stato – con animus imprenditoriale – continui ad avere fortuna. Può vincere moltissimo, ma può anche perdere tutto. Pare che le istituzioni moderne abbiano il ruolo di impedire queste due ipotesi estreme, seguendo una via mediana, che lasci aperta la possibilità di quelle ipotesi nel campo dell’iniziativa privata. Le istituzioni politiche costituiscono la dimensione pubblica, che non può mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini e che, pertanto, non può essere una impresa privata, che si svolge, par essence, nell’area del rischio.

E’ ben vero che i cittadini, in democrazia, sono liberi di scegliersi uno Stato-azienda ed istituzioni a rischio, sperando nella fortuna. Pare, altresì, che questo modello sia puramente astratto, in quanto il politico capace sarà attorniato da un gruppo di tecnici e di scienziati, aventi la funzione di comprimere l’alea che permea di sé le decisioni e i rischi dell’impresa-Stato, con la correlativa possibilità di eventi sfortunati.

Nondimeno, resta, comunque, vero che una maggioranza, la quale voglia istituzioni a rischio, impone il rischio alla minoranza, la obbliga all’azzardo, analogamente a quello con cui, in uno Stato democratico, la maggioranza delibera, mediante gli organi governativi, di entrare in guerra. Ciò può rivelarsi lecito, ma non può essere nascosto. E poi, si tratta di vedere se il gruppo di tecnici e di scienziati, che assiste il politico alla guida delle istituzioni, gli lascia o meno spazio. Se sì, allora la guida viene assegnata a chi lavora in situazioni di rischio, sperando nella fortuna. Se no, allora le istituzioni si convertono in un apparato tecnologico, che si prefigge sistematicamente il superamento del rischio e della fortuna dall’amministrazione della cosa pubblica, cioè, si prefigge di non essere un’impresa. E’ ciò che sta avvenendo sul piano planetario, malgrado la rivitalizzazione della figura tradizionale dell’impresa e dell’ “uomo forte”, che la incarna.