La sindrome del burnout è una costellazione di sintomi che emerge in lavoratori quotidianamente a contatto con il disagio. Negli anni ‘70 Maslach e Freudenberger hanno osservato comportamenti particolari negli operatori di strutture sanitarie e hanno decodificato questa sindrome.
Maslach definisce il burn-out come “una perdita di interesse vissuta dall’operatore verso le persone con cui svolge la propria attività (pazienti, assistiti, clienti, utenti, ecc.), una sindrome di esaurimento emozionale, di spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali”.
Il burn-out colpisce non solo operatori del socio-sanitario (medico, psicologo, assistente sociale, infermiere, ecc.) ma anche qualunque operatore che è a contatto con un aspetto del disagio sociale (avvocati, insegnanti, impiegati delle poste/banche, menager, ecc.).
La persona in burn-out manifesta 1 – nervosismo, irrequietezza, apatia, indifferenza, cinismo, ostilità; 2 – somatizzazione (ulcere, disturbi cardiovascolari, insonnia, disturbi sessuali) e disturbi comportamentali (abuso di alcol e/psicofarmaci); 3 – rabbia, risentimento, demotivazione, negativismo, indifferenza, depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, isolamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critica nei confronti dei colleghi.
Le cause dello sviluppo di questa sindrome risiedono sia nelle caratteristiche personali sia lavorative. Caratteristiche personali: solitamente chi va in burn-out sono persone (soprattutto donne) dai 30 ai 40 anni, magari alla prima esperienza importante lavorativa e con grandi aspettative, single o senza una relazione sentimentale stabile e che fanno della professione il loro quasi unico aspetto della vita; infine, sono persone poco assertive e che tendono a reagire alle problematiche in modo o passivo o aggressivo.
A queste variabili si associano, spesso, anche caratteristiche ambientali come ruoli lavorativi a rischio (vedi prima), contratto di lavoro instabile e remunerazione incerta; scadenze pressanti; presenza di mobbing. Alla fase di burnout conclamato si arriva per gradi. Inizialmente la persona manifesta un esagerato entusiasmo per il proprio lavoro quasi un’idealizzazione accompagnata dalla convinzione di cambiare sé stesso o gli altri.
Successivamente emerge la svalutazione per il proprio ruolo derivato dall’incapacità di gestire i fallimenti e le varie richieste. Segue, poi, la frustrazione che nasce dalla percezione di non essere utile e dalla svalutazione delle proprie capacità lavorative.
Infine emerge l’apatia che sostituisce qualsiasi emozione accompagnata dal desiderio di fuga, “cambio lavoro”. Cosa fare? Sarebbe importante una buona strategia aziendale (per esempio: ciclicamente cambiare reparto o mansioni) oppure inserire nella formazione strategie di problem-solving e di gestione delle emozioni.
Qualora il singolo operatore chieda aiuto, è necessario inizialmente accogliere il suo stato di disagio; successivamente, con un lavoro a tappe, aumentare l’autostima insegnando tecniche di rilassamento, tecniche di comunicazione assertiva e, infine, stimolando a fare cose piacevoli (come coltivare hobby).