LA TESTA MARMOREA RITROVATA NEL 1919 DA UN PESCATORE CERVETRANO EMBLEMA DI UNA TERRA SACRA DIVENUTA EFFIMERA,UN EDEN DIVENUTO ARIDO.
di Angelo Alfani
“Il Vaccina, il gelidus caeritis amnis cantato da Virgilio, gorgogliando fra le rocce sassose da cui è trattenuto, qua cade da una balza per riformar nuove cascate bellissime, che s’infrangono rumorosamente in mille e mille sprazzi fra gli scogli, là s’aggira in gorghi profondi e laghetti per prendere nome di Braccio di mare e dopo un corso non breve e tortuoso va a scaricarsi sul mare nelle vicinanze di Torre Flavia”.
Questa la poetica descrizione fattane nel 1890 dall’allora Segretario del Municipio di Cerveteri Francesco Rosati, figlio di Pacifico storico vetturino e proprietario dell’unica locanda esistente in un paese che allora contava si e no duecento anime. Proprio nell’alveo del Vaccina avvenne una sensazionale scoperta, un ritrovamento che l’archeologo R. Mengarelli, in una nota dell’autunno del 1919 per il Museo nazionale romano, così racconta:”Mentre pescava nel fosso Vaccina a sud di Caere, un poco a valle del ponte detto di San Paolo, un tal Francesco Di Berardino trovò tra i ciottoli dell’alveo una testa di marmo bianco.Io assicurai il possesso di essa al Museo Nazionale pagando metà del valore al Di Berardino, come legale compenso a lui dovuto nella sua qualità di scopritore.
La testa marmorea è un poco più grande del vero, col collo munito inferiormente di una specie di sporgenza mediante la quale esso si fissava in un cavo predisposto alla sommità di un busto o di una statua acefala. Essa è molto levigata e sciupata per l’azione dell’acqua. Si tratta evidentemente di un ritratto, e, per quanto può apparire, nonostante l’alterazione parziale dei lineamenti, sembra di uomo adulto imberbe, o con barba appena nascente e di aspetto severo.Sebbene non sia possibile un riferimento iconografico, tuttavia si può ritenere che la testa sia di uno degli imperatori della decadenza dell’impero romano, cioè di un periodo in cui il municipio cerite aveva perduto ogni sua importanza, e, con una popolazione molto ridotta, non occupava più che un breve spazio all’estremità meridionale dell’altipiano tufaceo, sul quale parecchi secoli prima si estendeva la ricca e potente città etrusca.
È del resto noto come i municipi romani più poveri, i quali non potevano sostenere la spesa per scolpire una nuova statua per ogni nuovo imperatore, usassero far cambiare soltanto la testa alla statua imperiale che possedevano, e la testa descritta ben può essere una delle tante che, in tempi non lieti, il municipio di Caere fece successivamente scolpire per questo scopo”. La ragionevole interpretazione che Mengarelli fa dell’uso di cambiare solamente la testa alle statue imperiali, attribuendola al periodo non lieto che si viveva in quel tempo nel municipio romano di Cerveteri, mi ha fatto pensare agli anni incresciosi nei quali ci troviamo a vivere. Tempi in cui le teste dei sindaci-imperatori della coda del basso impero vengono infilzati sullo stesso busto, ogni giorno più vecchio e decrepito. Cambiare la testa lasciando tutto il resto immutato, questa la regola. Stesso metodo di affrontare le problematiche che, col trascorrere dei decenni, sono oramai nodi di Gordio e millimetrica attenzione a non creare pruriti ai possessori di gruzzoli elettorali, così da perpetuare continuità nel misero potere locale ma perpetuando, nel contempo, il precipitare nella decadenza economica e morale.
Un Paese in movimento, discutibile, ma comunque in movimento, per più di un cinquantennio, è oramai impaludato, come accade agli stivali nelle argillose terre di Montetosto dopo abbondanti piovaschi. Una comunità costretta a vivere tra chiacchiere e distintivo. Una terra ‘sacra’, come la definiva il Dennis, è divenuta ‘effimera’, una terra delle opportunità divenuta avara. Potrà un fatto grandioso e tragico, come il ‘pestilenzioso tempo’ che ci sferza, rappresentare un avvenimento così potente da determinare uno stacco tra la mediocrità attuale e il definitivo raggiungimento della maturità? O accadrà come quando Dio, pentito della creazione, per la piega sbagliata presa dagli umani, fece piovere ‘sto monno e quell’altro, lasciando che solo l’arca con i suoi variopinti passeggeri si salvassero, nella certezza che si sarebbero ricreduti. Non passò molto tempo dall’apparire dell’arcobaleno che tutto ricominciò, esattamente come prima.