LA SCUOLA NON E’ UN CAPPUCCINO O UNA MESSA IN PIEGA

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“CHI RITIENE CHE INSEGNAMENTO DA REMOTO E IN PRESENZA SIANO INTERCAMBIABILI NON HA COLTO IL FONDAMENTO CULTURALE E CIVILE DELLA SCUOLA.

di Angelo Alfani

“Prima del Virus”, secondo il nuovo Calendario, la scuola era la scuola. “Dopo il Virus” non è ancora dato sapere che cosa ne sarà. Se l’esperimento in essere dovesse, malauguratamente, riproporsi e divenire prassi, come gli insipienti auspicano, della scuola che conosciamo non resterebbero che calcinacci.
Un recente appello, a firma di prestigiosi intellettuali non asserviti, illustra, quanto meglio non mi è dato scrivere, la situazione:
“Per quanto riguarda il prossimo anno scolastico, nessuno sottovaluta i vincoli oggettivi che potrebbero persistere anche in autunno, rendendo troppo rischioso il tentativo di ritorno alla normalità. Ma dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet.
È probabilmente superfluo ricordare che il termine greco scholé, dal quale derivano i termini che nelle lingue moderne descrivono la scuola, indica originariamente quella dimensione di tempo che è liberata dalle necessità del lavoro servile, e può dunque essere impegnata per lo svolgimento di attività più nobili, più corrispondenti alla dignità dell’uomo. Ne consegue che la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica. Insomma, qualcosa di appena più importante e incisivo di una messa in piega o di un cappuccino”.

A futura memoria fa seguito il ricordo personale del primo giorno di scuola.
“Nonostante fossimo in ottobre, la calura teneva botta. Pochi fortunati schizzavano in aria acqua e melma, tuffandosi a volo d’angelo nel fosso, mentre la maggioranza dei ragazzini, unghie smozzicate ed annerite, se sfiatavano appresso a pallette e lattine. La fine della libertà era suggellata, la sera prima dell’inizio delle lezioni, dalla prova grembiule. L’abbottonatura di dietro, il fiocco ed il colletto di rigida plastica che, nonostante te lo girassi, ti segava il collo, rappresentavano ulteriore costrizione.

Tra schiaffoni di mamma e gli strattoni della sorella più grande il tragitto da casa fino alle scalette pe nna’ in chiesa poste di fronte al portone dell’imponente edificio scolastico, sembrava ‘na salita al Calvario. ‘Na sfirza de mamme e scolari, una confusione generale fatta di saluti urlati, spintoni, parolacce e pianti, tanti, soprattutto di quelli delle prime.

Gli unici rilassati erano i somaroni, svettanti come arberipizzuti. Sbillungoni dal grembiule striminzito e sbiadito per le tante lavate, che lasciava scoperte ginocchia segnate da lividi, croste e peluria bionda. Parcheggiavano già da anni alle elementari, raggiunti dai fratelli minori, doppiati, come succedeva nelle interminabili corse in attesa di cena, dal capoclasse.

Per anzianità riconosciuta e riconoscibile avevano il compito di portare la sporta della spesa negli appartamenti dei maestri, su all’ultimo piano del palazzo scolastico, o di rifornire di legna le stufe di terracotta che stiepidivano un tantinello le gelide aule. Sti servizietti, assieme a mazzi di carciofi, monete antiche rimediate percorrendo profondi carracci assieme a qualche lacrimino risultavano indispensabili per terminare la quinta e entra’ nel mondo del lavoro.

Gli insegnanti attendevano in aula dando un’ultima sistemata alla cattedra, mentre le bidelle, molte vedove di guerra, davano le ultime spazzolate al lungo corridoio. In piedi, sui gradoni d’ingresso, il maestro Occhio Di Triglia, faceva er cascamorto con spaesate supplenti, sperando in gratitudini future e sguardi vaghi sui conti del refettorio.

Il sindaco con consorte due o tre assessori imbarazzanti, maresciallo e vigili urbani, smaniava dal dare inizio al melenso, untuoso e retorico discorsetto con sbattimano finale.

Tentativi di far zittire la folla e mettere ordine si dimostrarono vani.
Gli scolari avevano la capoccia altrove: scegliese il compagno de banco, mostrare il nuovo astuccio ed il compasso appena ricevuto in regalo dal compare, accarezzare il rospetto ‘nguattato in saccoccia. Altri pensavano al bastone del maestro, al righello della maestra alle più che probabili mazzolate dei genitori alla prima pagella.

Le sgomitate, seguite dalle spintarelle, divennero spintoni impossibili da parare da chi era frammisto tra la marea e l’ingresso.
Fin tanto che Aghetina saggiamente spalancò il portone che, come biblica balena, ingoiò grembiuli blu e bianchi, lasciando straniti sindaco, Occhio Di Triglia, supplenti e misticanza varia. L’odore della varechina e lisoformio, misto a quello dell’inchiostro appena versato nei calamai, riempi’ le narici, mentre il suono della campanella sovrastò il calpestio ed il rumore delle cartelle sbattute sui banchi. L’appello dette inizio all’anno scolastico”.