LA RICERCA DELLA LIBERTÀ È MALATTIA: LO DICE LA SCIENZA

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NELL’800 LA MEDICINA SCOPRÌ UNA MALATTIA: LA “DRAPETOMANIA,LA PREDISPOSIZIONE GENETICA DEGLI SCHIAVI NERI ALLA FUGA”.ORA HA IDENTIFICATO UN “DISTURBO MENTALE”CHE AFFLIGGE I DISSIDENTI: IL NEGAZIONISMO.

di Miriam Alborghetti

La reductio ad Hitlerum, ossia la denigrazione e la squalificazione senza appello di chi dissente dalla Verità diffusa dal Giornale Unico del Virus e non vuole sottomettersi alle misure oppressive ad essa connesse si è palesata fin dal primo momento dell’era pandemica quando qualunque posizione critica nei confronti della gestione e della narrazione mainstream dell’epidemia è stata bollata come “negazionista”.

drapetomiaCome ho già scritto in passato, “negazionista” è una etichetta infamante in virtù del fatto che il termine – utilizzato per la prima volta da H. Rousso, ne La syndrome de Vichy – è stato coniato per indicare coloro che negano la shoah. Pertanto ha una valenza fortemente negativa, criminalizzante, e quando si marchia una persona con questo epiteto è come se gli venisse lanciata una pietra in mezzo agli occhi e cucita addosso una sorta di lettera scarlatta: al posto della A di adultera, la N di negazionista. A prender parte a questa neoforma di squadrismo contro i non allineati ci si sono buttati anima e corpo i rappresentanti di alcune discipline scientifiche (biologi e psicologi d’avanspettacolo con seguito di assistenti e lustrascarpe) che hanno iniziato a catalogare il “negazionismo” come malattia mentale. Questa pericolosa deriva distopica non può non richiamare alla memoria la propaganda antisemita del secolo scorso, nonché il trattamento riservato agli eretici dalla Chiesa, ai dissidenti dai regimi totalitari, alle donne che rifiutano le regole vessatorie a loro destinate dall’integralismo religioso.

Ma a pochi verrà in mente la “drapetomia”, la malattia di cui avrebbero sofferto gli schiavi neri che cercavano di scappare non adattandosi alla schiavitù. Ne parla Pieralberto Valli, in un articolo pubblicato da radiocora.it, La Pandemia e il rischio di una nuova schiavitù:«[..] Proprio qualche giorno fa mi sono imbattuto in una figura emblematica del passato, una di quelle che la storia rifiuta di ricordare e dimentica tra le pagine richiuse di un libro.
Era il 1851 e sul «New Orleans Medical and Surgical Journal» compariva un articolo in cui si descriveva una malattia appena scoperta: la drapetomania. L’autore, Samuel Cartwright, era un medico americano le cui convinzioni erano figlie dell’epoca schiavista in cui era immerso come in un letargo ovattato, melmoso; una sorta di incubo. Il neologismo che aveva coniato, drapetomania, intendeva indicare la predisposizione genetica degli schiavi neri alla fuga e nella sua dissertazione ne descriveva le cause, i sintomi e le cure più efficaci. Nei casi più gravi si andava dalle frustate alla rimozione degli alluci per impedire la corsa, ma molto più spesso, secondo lui, era sufficiente creare le condizioni che prevenissero l’insorgere dell’infermità: “Se sono trattati con affetto, nutriti e vestiti adeguatamente, forniti di quanto basta per accendere un po’ di fuoco la notte, suddivisi in famiglie, ogni famiglia a casa sua, senza permettere loro di uscire la notte, di visitare i vicini, di ricevere visite […] si lasciano governare molto facilmente”.
In altre parole “è sufficiente tenerli in questo stato e trattarli come bambini, con cura, affetto, attenzione e umanità, per prevenire e guarirli da ogni tentativo di fuga.”
La ricerca di libertà poteva essere curata. Finalmente liberi di non esserlo, sottomessi con la giusta dose di cortesia, come scrive Cartwright, soddisfatti nei bisogni fisici e protetti dagli abusi, gli schiavi sarebbero rimasti ammaliati e non avrebbero più desiderato scappare. Sarebbero rimasti volontariamente dentro ai confini del lecito, dentro al perimetro di ciò che l’autorità aveva stabilito per loro. Andavano solamente indirizzati, educati, curati. L’orrore che ci assale, un orrore simile a quello che ci colpisce quando pensiamo alle leggi razziali del ventennio, è figlio di un punto di vista. La normalità del presente è il filtro attraverso cui osserviamo un’altra normalità, quella del passato. Le generazioni future, dalle alture della loro visuale, osserveranno il passato del loro presente, osserveranno noi, qui e ora. E onestamente, con un brivido lungo la schiena, non so dire come ci giudicheranno».