Il tema del morbo lo possiamo considerare un archetipo dell’umanità.
di Giuseppe Vatinno
Le pandemie hanno accompagnato l’intero cammino dell’umanità. In genere ce ne è una grande ogni cento anni –l’ultima fu la “Spagnola” del 1918- e questo periodo che va dal secondo dopoguerra ad oggi ci ha dato l’illusione di un tempo felice, libero da pestilenze e guerre. Ma era solo una illusione, come abbiamo visto.
Dunque il tema del morbo lo possiamo considerare un archetipo dell’umanità.
Il morbo per eccellenza è stato la peste, dovuto ad un batterio trasmesso dalle pulci dei ratti all’uomo, ma anche i virus sono stati sempre presenti.
Una delle prime descrizioni l’abbiamo ad opera di Omero nell’Iliade (750 a.C.) che descrive mirabilmente l’ira di Apollo per il rifiuto di Agamennone di rendergli la sua schiava Criseide, il cui padre era sacerdote del dio che scatena il morbo. Anche L’Edipo Re di Sofocle (413 a.C.) descrive la peste che colpì Tebe a causa dell’ira degli dei per l’uccisione del legittimo re Laio. Famosa è la descrizione di Tucidide che nelle sue Storie raccontò la pestilenza che colpì nel 340 a.C. Atene impegnata contro gli spartani nella guerra del Peloponneso. Prima fa colpito il porto del Pireo, legato ai traffici commerciali, e poi la città alta provocando una strage memorabile.
Inutile il ricorso agli oracoli e agli dei.
A Roma, nel I secolo a.C., Lucrezio nel suo famoso poema De rerum natura riprende la descrizione di Tucidide. Ma la peste ed altri morbi sono legati nell’immaginario collettivo al medioevo un’epoca in cui la pestilenza accompagnò da vicino l’umanità.
Giovanni Boccaccio nel suo Decameron (1349) racconta la peste che nera che devastò l’anno prima Firenze. Lo fa letterariamente immaginando che sette ragazze e tre ragazzi si rifugino in campagna per sfuggire al contagio e che quindi nel tempo di dieci giorni (il titolo greco questo significa) si prendano il compito –per passare il tempo- di raccontare ciascuno una novella. La lingua utilizzata ovviamente è un italiano ancora infarcito di latino, ma la sua comprensione è assicurata anche ai nostri tempi e il libro pienamente godibile.
I racconti mostrano uno degli effetti sociali della pandemia: la gente vista l’inutilità dei tentativi di combattere si concentra unicamente su libagioni ed erotismo.
Ma il capolavoro sulla descrizione della peste è I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni che vide la prima edizione nel 1827. Renzo e Lucia sono i protagonisti della vicenda che vedrà nella partefinale la comparsa del terribile morbo e porterà il Manzoni ad una descrizione accurata e indimenticabile di quello che accadde nel seicento il Lombardia. La peste qui ha anche un valore ideale perché smuove i protagonisti agli estremi delle loro passioni, nel bene e nel male.
Lo scrittore francese Albert Camus nel 1947 scrive La peste, romanzo ambientato in un piccolo paese dell’Algeria negli anni ’40 dello scorso secolo. Il protagonista è un medico, Bernard Rieux che improvvisamente si trova in una realtàinimmaginabile fino a poco tempo prima con uno stravolgimento totale di usi e costume sociali. Riti di pulizia. Abluzioni, paura del contagio ricordano molto quello che sta accadendo ora nel mondo, ma che era stato solamente dimenticato.
Del 1981 è invece Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, che racconta l’amore tra due giovani che si sono conosciuti in un sanatorio e che sono malati di tisi. Il morbo è un catalizzatore per parlare dei temi dell’esistenza e del disagio psicologico con l’accompagnamento costante della tisi, sempre presente a dirigere la trama degli eventi.
Un’opera molto nota che ha segnato addirittura un’epoca è L’amore al tempo del colera (1985) del colombiano e Nobel Gabriel Garcia Marquez. La trama è complessa, molto articolata e si fa notare per l’oggettivo elemento descrittivo e dialogico ed è incentrata sul tema dell’amore e del tradimento. Il focus che potremmo definire psicanalitico è nel rapporto tra eros e angoscia, termini antitetici che sono alla base, secondo Freud, dello sviluppo dell’umanità. L’angoscia è ovviamente rapportata al morbo, questa volta il colera che come un algido direttore d’orchestra guida gli eventi, ne scandisce i tempi e i modi, ne provvede alla rappresentazione nel gran teatro del mondo. Una descrizione del vaiolo è riportata invece nel romanzo dello scrittore brasiliano Jorge Amado Teresa Batista stanca della guerra (1972), in cui l’autore racconta della stupenda mulatta Teresa che si dedica ai malati ricordando un po’ Fra Cristoforo dell’opera del Manzoni. Una cronaca di stampo giornalistico dello stravolgimento della vita quotidiana si ha ne La peste di Londra (1772) di Daniel Defoe, in cui un sellaio descrive il progressivo ed inesorabile assedio del morbo.