La leggenda del nocchiero Palinuro e della ninfa Kamaraton

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di Antonio Calicchio

 Schelling, nel suo idealismo estetico, riassunto nel Sistema dell’idealismo trascendentale, tenta di realizzare l’integrità e l’unità assoluta dello spirito, attraverso la “creazione estetica”, perché l’artista è spinto a determinarsi come da un “afflato divino”; l’artista ricompone il dissidio tra l’io e il non-io, perché limita nel finito l’infinito, esprime l’infinito nel finito, e perché materializza lo spirito e spiritualizza la materia. L’artista – prosegue il filosofo – è creatore e rivela la stessa forza che agita l’universo ed opera l’evoluzione cosmica. La natura è un poema scritto a caratteri misteriosi: e spezzare questo mistero – conclude Schelling – ecco l’arte.

L’estemporanea di pittura, promossa ed organizzata da Innocenzo e Anna Maria Bortone, in memoria dell’artista Carmine Caputo, ha avuto luogo presso la piazza cittadina, intitolata al patrono S. Marco Evangelista, a Licusati di Camerota – Salerno, nel Parco Nazionale del Cilento. La seconda edizione, avente per oggetto la leggenda del nocchiero Palinuro e della ninfa Kamaraton, ha aperto le porte alla sez. fumetti, votati dalla giuria popolare online, sulla pagina web dell’evento, fino al 10 agosto; nel tentativo di educare alla bellezza e all’estetica, e di avvicinare i giovani all’arte e alla cultura, l’estemporanea è stata aperta anche ai bambini dai 5 ai 12 anni, nonché ai giovani dai 13 ai 17 anni. Per gli adulti, sono stati previsti premi in denaro; per i ragazzi, cassette di colori Maimeri (sponsor tecnico) e, per i più piccoli, medaglie e attestati di partecipazione.
Il 12 agosto, alle ore 21.00, a seguito della premiazione delle quattro opere vincitrici della sez. senior, ha avuto inizio – presentato da Soraida Del Duca – il convegno Sbullonarti, rivolto alla sensibilizzazione e all’arte di smontare il bullismo. E’ stato presentato il libro Ci vediamo all’inferno della studentessa e scrittrice Arianna Nese; con la moderazione di Maria Teresa Grimaldi e gli intermezzi musicali dell’oboista e parroco M° Don Antonio Toriello, sono intervenuti il medico e scrittore Pasquale Carelli, il presidente della Fondazione Grande Lucania Onlus (sponsor della manifestazione) senatore avv. Francesco Castiello, il consigliere della Regione Campania on. avv. Maria Ricchiuti, l’avvocato cassazionista, scrittore e docente presso l’Università di Roma “La Sapienza” Antonio Calicchio, l’esperta in violenze di genere e sui minori Monia Monzo, la psicologa e psicoterapeuta Serena Grazia Lucibello.
Nel corso del dibattito si è evidenziato il fatto che noi siamo animali sociali e la vita di ciascuno non avrebbe scopo senza la presenza degli altri. Ciononostante, viviamo in un’epoca in cui “l’individualismo” viene sempre più esaltato, determinando una involuzione culturale, perché, come affermava Aristotele: “l’uomo non basta a se stesso, ha bisogno degli altri”. La nozione di individuo è di matrice cristiana, perché il primato dell’individuo è stato introdotto dal cristianesimo, con la nozione di “anima”; ciò che importa è salvare l’anima, diceva S. Agostino. E di qui nasce l’individuo. Per il mondo greco, l’individuo aveva senso all’interno della città, della polis, il primato era della città, della società, e non dell’individuo. Con l’avvento del cristianesimo, si capovolge il rapporto, e il primato è dell’individuo.
In Grecia, vi erano due parole per nominare l’individuo, l’uomo: la parola aner e la parola anthropos, che non erano mai utilizzate. All’epoca di Omero, si usava la parola brotos, che vuol dire: colui che è destinato a morire; all’epoca di Platone, thnetos: il mortale. Mentre i Greci prendono sul serio la morte, i cristiani, invece, non credono ad essa, perché pensano che dopo questa vita ve ne sia un’altra. Da tanto derivano le figure della speranza, della consolazione, che si traducono, poi, nella sopportazione di tutti i dolori della vita, dato che, poi, ce n’è un’altra, e, quindi, nell’accettazione incondizionata della sofferenza.
Il riferimento è stato fatto alla cultura cristiana e a quella greca, dal momento che esse sono le due radici dell’Occidente: le radici della fede e quelle della ragione. La ragione dà il senso del limite umano; ed infatti, le due massime dell’oracolo di Delfi, citato da Platone, erano: “Conosci te stesso” e, soprattutto: “Evita gli eccessi”; ecco, cosa evita l’eccesso? La razionalità, il ragionamento. La fede comunica delle promesse, relative alla vita eterna, alla salvezza, risponde alla domanda di senso. Ed infatti, i cristiani concepiscono il tempo come un tempo escatologico – éskhatos è una parola che significa ultimo – dove, alla fine, si attua quello che all’inizio era stato annunciato; ed allora, il tempo acquista un senso, perché iscritto in un disegno, in un progetto di salvezza e dà vita alla storia. I Greci, invece, i quali pensavano che il tempo fosse ciclico – primavera, estate, autunno, inverno – e che, quindi, gli uomini seguissero il destino della natura – la quale natura non ha senso perché semplicemente è la ripetizione della sua vitalità – non si ponevano il senso della vita, giacché il loro tempo non era iscritto in alcun disegno, ma era situato in un ciclo, che era il ciclo naturale.
Nel corso dei secoli, in Occidente, ha prevalso – come noto – la cultura cristiana su quella greca, perché il cristianesimo ha reso l’uomo immortale, iniettando nell’individuo una carica potentissima di ottimismo e di speranza.
Oggigiorno, la difficoltà che incontra l’uomo è quella di interiorizzarsi, di conoscere se stesso, perché se non si conosce se stesso, non ci si può neanche autorealizzare; da ciò scaturiscono l’alienazione e l’incapacità a raggiungere la felicità, perché la felicità è l’autorealizzazione di se stessi, come riteneva sempre Aristotele, secondo il quale ogni uomo è fornito di una vocazione, di una inclinazione, che egli chiama daimon; ciascuno ha il suo demone: il musicista, l’artista, il filosofo, l’uomo che lavora manualmente. E la felicità in greco si dice eudaimonia: “la buona realizzazione del tuo demone”. La felicità è, quindi, autorealizzazione. Oggi, invece, si versa in una condizione radicalmente opposta, perché, qualsiasi professione si eserciti, ci si trova inseriti a realizzare i fini degli apparati di appartenenza e non le proprie istanze o la propria vocazione o la propria inclinazione psicologica rispetto all’autorealizzazione. Tutti abbiamo un progetto esistenziale, ma, poi, ci addoloriamo, ci affliggiamo, perché non riusciamo a realizzarlo,  non per colpa nostra, ma per il fatto che esistiamo solo come funzionari di apparati. Dal lunedì al venerdì siamo assorbiti da questi apparati – chiamo apparato la scuola, gli ospedali, tutte le professioni – dopo cinque giorni potremmo occuparci di noi stessi nel week end, ma, vista la desuetudine con cui entriamo in rapporto con noi stessi, nel week end, o durante le ferie estive, fuggiamo da noi stessi come dal peggior nemico.
L’epoca contemporanea, allora, è caratterizzata dall’ “individualismo”, dall’incapacità di conoscere se stessi, di autorealizzarsi e, quindi, di raggiungere la felicità. Ma un ulteriore elemento connota la nostra epoca, ed è quello che, nella seconda metà dell’ 800, ci è stato già preannunciato da Nietzsche: il nichilismo. Nietzsche definisce il nichilismo sulla base di tre presupposti:
manca lo scopo;
manca la risposta al perché;
i valori si svalutano.
Scopo deriva dal greco skopòs, che vuol dire “mira”, “meta”; da skopein, “vedere”, “scrutare” (microscopio, telescopio, endoscopia, etc.); e, quindi, manca la “meta”, manca la capacità di vedere la meta, manca la capacità di proiettarsi al futuro;
manca la risposta al perché;
i valori si svalutano, cioè i valori hanno perso il loro valore.
Ma se la nostra epoca è quella della negazione di ogni valore, ciò è perché il nichilismo – definito da Nietzsche “il più inquietante fra tutti gli ospiti” – si aggira tra le nostre esistenze umane, penetra nei sentimenti, confonde il pensiero, cancella prospettive ed orizzonti, fiacca l’anima, intristisce le passioni.
E le famiglie si allarmano. La scuola non sa più cosa fare: soltanto il mercato conduce sulla via del consumismo in cui ciò che si consuma è la stessa esistenza, che non riesce a proiettarsi in un futuro tale da far intravedere una qualche promessa e una qualche speranza. Da ciò origina quel disagio, che non è psicologico o esistenziale, ma culturale, in cui la tecnica – che rappresenta un altro fenomeno proprio della nostra era – garantisce sì il progresso, ma non un ampliamento dell’orizzonte di senso. La tecnica non tende ad uno scopo, non produce senso e non rivela verità, ma essa svolge un unico compito: cioè funziona. Finiscono, così, a margine i concetti non solamente di persona, identità, senso, libertà, ma anche di natura, morale, politica, diritto, religione, storia, di cui si è alimentata l’età pre-tecnologica. E chi più sconta l’assenza di futuro, che modella l’età della tecnica, sono i giovani, i ragazzi, contaminati e contagiati da una profonda insicurezza, condannati ad una deriva della vita che coincide con il loro assistere allo scorrere del tempo in terza persona.
Culto della bellezza, idolatria dell’apparenza, ossessione della crescita economica e del mercato, tirannia della moda, della tecnica, del potere: ecco, sono questi i miti d’oggi – ingannevoli e falsi – che, in realtà, sono “idee malate”, che pervadono e plasmano non solo l’individuo, ma anche la società. Idee che la pubblicità e i mass media ci propongono come valori e ci impongono come pratiche sociali. I miti sono idee che posseggono, dominano e governano l’uomo con mezzi che non sono logici, bensì psicologici, e, quindi, radicati nel profondo dell’anima; sono idee mitizzate, perché non danno problemi, facilitano il giudizio, rassicurano. Eppure, occorre risvegliarsi dalla quiete apparente delle nostre idee mitizzate, perché molte sofferenze e molti malesseri, ivi compreso il bullismo, lo stalking, la violenza, scaturiscono proprio dalle idee che non permettono più di capire e comprendere il mondo in cui viviamo.
La discussione, poi, si è conclusa sollevando un interrogativo: si può superare questa epoca nichilistica, attraversata dai suoi falsi miti? Ebbene, la risposta cui si è pervenuti è stata una risposta affermativa, ad una condizione, però, e cioè che si acquisisca quella che i greci chiamavano “l’arte del vivere”, che consiste nel riconoscere le capacità e le virtù proprie e degli altri, e nel vederle fiorire secondo misura. Se si riesce a compiere questo passo, ossia di prendere coscienza e di rispettare sé e gli altri, di realizzare il proprio daimon, come asseriva Aristotele, allora questa epoca, insieme al suo ospite inquietante, non è passata invano.