LA GIUSTIZIA NELLA STORIA DELL’OCCIDENTE

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giustizia

La giustizia non coincide sempre con l’equità. E’ paradossale che la nostra cultura nasca da tre processi iniqui.

di Antonio CALICCHIO

In questi anni, è andato affermandosi un modello nell’ambito della filosofia politica e giuridica, cioè quello relativo alla “giustizia”, sulla scorta dell’opera di Rawls, dal titolo Una teoria della giustizia.

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Mentre sulla coerenza, plausibilità e validità dell’opera rawlsiana esiste un diffuso dibattito, vi è concordia, anche fra i suoi oppositori, circa, invece, la rilevanza della stessa per le questioni di giustizia. Quantunque sorte entro il filone della filosofia c.d. analitica, le teorie di Rawls tuttavia hanno rappresentato un punto centrale per i dibattiti filosofici. Il vigore del modello rawlsiano si riscontra nel contesto bensì delle discussioni di filosofia giuspolitica, ma anche delle teorie economiche, psicologiche, sociologiche, urbanistiche, ecologiche, bioetiche. L’importanza filosofica ed ermeneutica di quel modello ha prodotto, pure nel nostro Paese, un indirizzo di studi, ricerche e insegnamenti in linea con esso. Dalla seconda metà degli anni settanta, del secolo scorso, in Italia, alcuni filosofi, sociologi, giuristi, economisti hanno iniziato a lavorare entro quella prospettiva, confrontandosi con consolidate e classiche tradizioni culturali italiane. Ciò sulla base di un assunto principale, vale a dire che le questioni di giustizia altro non sono che questioni di giustificazione. Di giustificazione nel senso “normativo” che vertono su istituzioni, pratiche sociali, decisioni collettive, norme giuridiche che, nella diversificazione dei settori, costituiscono oggetto dei concetti di giustizia.

Nello stesso periodo, Norberto Bobbio proponeva quattro modi di intendere il pensiero politico: il primo atteneva al modello della “ottima politica”; il secondo al problema dell’obbligo politico; il terzo al criterio del politico; il quarto alla filosofia della scienza politica. E almeno i primi due modi sono ripensabili nell’ottica della giustificazione anzidetta. Non a caso, Platone tenta di offrire risposta proprio all’interrogativo intorno all’ottima repubblica!

Da un punto di vista storico, sebbene appaia naturale distinguere le versioni classiche della giustizia – Platone e Aristotele – da quelle moderne – Hobbes, Locke, Hume, Rousseau e Kant – sociali –Bentham, J.S. Mill e Marx – e contemporanee – Sidgwick, Juvalta, Hart, Hayek e Rawls – nondimeno rimane aperta la questione delle diverse immagini riguardanti la giustizia. Occorre ammettere, da un lato, che ogni versione della giustizia si rivela una risposta a sollecitazioni di natura storica e culturale, tipiche del suo contesto, d’altro lato, che interpretazioni meramente contestualistiche risultano del tutto insufficienti, ai fini di una ricostruzione razionale ed unitaria.

Non è chi non veda come l’analisi degli scritti dei citati autori conduca all’effetto secondo cui tutti costoro dibattono di problemi di giustizia, ma facendo contemporaneamente riferimento a cose diverse. Si potrebbe, quindi, ritenere che la parola giustizia abbia differenti significati, incompatibili fra loro, e che si mostri illusorio cercare un itinerario razionale ed univoco, in quanto, data l’identità del termine, si presentano concetti che si diversificano tra loro.

Tale scetticismo non è un esito inevitabile! A mio avviso, si può far ricorso ad una alternativa che trova fondamento sulla intrinseca complessità dell’idea di giustizia, distinguendo tra una idea di giustizia e diverse visioni della giustizia, ossia tra un concetto di giustizia e diverse concezioni di essa, in modo da tentare di unificare le diverse concezioni in un unico concetto di giustizia.

In considerazione di ciò, giova seguire, nella disamina dei testi degli autori suindicati, un percorso che si focalizzi sulla constatazione che essi – ciascuno a modo suo – sono alla ricerca di una concezione della giustizia logica e coerente che precisi il criterio della giustificazione in relazione alla struttura fondamentale delle istituzioni. Ed infatti, Hobbes, Locke, Hume, Rousseau e Kant hanno puntualizzato concezioni diverse della giustizia, ma in rapporto alla circostanza che differente è la pretesa di giustificazione coerente con la loro teoria etica e politica. Pure Platone ed Aristotele esprimono tesi che, in merito alla società giusta o bene-ordinata, possono essere esaminate al lume del criterio di giustificazione.

Questo metodo interpretativo, che non intende prescindere dalla specificità storica dei contesti, può concernere anche Bentham, Mill e Marx che, nella diversità di approcci e risultati, estendono il parametro della giustificazione dall’area delle istituzioni a quello della società.

La giustizia dei contemporanei, sviluppata da Sidgwick, Juvalta, Hart, Hayek e Rawls, espone diverse risposte alla domanda in ordine alla giustificazione delle istituzioni, in cui questi autori hanno formulato due modelli di giustificazione, relativamente a diverse impostazioni teoriche, di origine kantiana o humiana, con concezioni radicate sulla imparzialità o sul reciproco vantaggio, posizioni costruttiviste o evoluzioniste. E in Rawls tutto questo dibattito teorico rinviene una sua sistematizzazione, determinando il paradigma summenzionato.

Dopo di lui, detto paradigma ha avuto un indiscutibile svolgimento, con il libertarismo di Robert Nozick, l’utilitarismo di John Harsanyi e R.M. Hare, il contrattualismo di David Gauthier, il conversazionalismo di Bruce Ackermann, la teoria dei diritti di Ronald Dworkin, il pluralismo di Michael Walzer, il comunitarismo di MacIntyre, Taylor e Sandel, il repubblicanesimo di Skinner, Michelmann e l’approccio della democrazia deliberativa di Habermas.

Quello stesso paradigma ha avuto influenza, inoltre, sul femminismo teorico, il marxismo analitico, l’etica applicata, tanto più alla luce della reinterpretazione della giustizia come equità, elaborata dallo stesso Rawls, in Liberalismo politico.

Ma la giustizia non sempre si identifica con l’equità! Anzi, è paradossale che filosofia, scienza e religione scaturiscono da tre processi iniqui: la condanna di Socrate, di Galileo e quella di Cristo, applicate ed eseguite comunque in osservanza di procedure legali. Se, quindi, si vuole tendere verso una coincidenza tra norma giuridica eteronoma e norma morale autonoma, è allora indispensabile ricercare una radice razionale e stabile. Radice rappresentata dalle culture che hanno edificato la civiltà occidentale: quella giudaico-cristiana e quella greco-romana. Dall’Antico Testamento deriva la natura retributiva della pena; dal Nuovo Testamento la misericordia, insieme alla redenzione; dal diritto romano la struttura dei nostri ordinamenti; dalla filosofia greca la priorità della elaborazione formale. E se Antigone, di Sofocle, pospone le leggi di Creonte, tiranno di Tebe, rispetto agli àgraphoi nòmoi, non perciò sfugge alla pena; analogamente Socrate che rifiuta la fuga come offesa all’autorità della Patria. Queste radici sono state filtrate dall’illuminismo e consolidate nei principi sanciti nella Costituzione repubblicana del ’48, in cui la presunzione di non colpevolezza si associa alla funzione pedagogica della sanzione e la morale si salda con l’utilità del recupero sociale.

Pertanto, la giustizia è e resta essenziale per orientarsi sui valori politici e i modelli sociali. In Occidente, la contesa politica attuale si basa sulla contrapposizione fra una prospettiva libertaria ed una egualitaria, misurate da una forma di comunitarismo. In questo senso, il futuro riserva un ampio ventaglio di problemi che attraversano i confini delle singole comunità statuali, al punto che la questione della giustizia implicherà l’espansione del paradigma e dei criteri della giustificazione nello spazio delle relazioni internazionali, tra  Hobbes e Kant.