«DA VICINO NESSUNO È NORMALE»
L’ex Manicomio provinciale di Roma offre un percorso tra arte e nuove tecnologie. Un museo della follia per non dimenticare le indegne situazioni, nelle quali un tempo versavano i pazienti.
Il carcere della pazzia ha origini molto remote. A metà del 1500, precisamente 1548, sotto il pontificato di Paolo III (1468-1549), il manicomio è stato fondato per volere del sacerdote Ferrante Ruiz. La sua prima sede il monastero di Santa Caterina delle Vergini Miserabili in piazza Colonna e quella attuale, piazza di Santa Maria della Pietà, è stata ideata inizialmente come una confraternita per accudire gli indigenti, i vagabondi e i pellegrini e, nel 1572, l’ospedale è stato rinominato “Ospedale di Santa Maria della Pietà dei poveri pazzerelli”.
Secondo le regole barberiniane (le quali stabilivano se il paziente potesse girare libero, rimanere incatenato, minacciato o dovesse essere necessariamente picchiato), sancite nel 1635 dal Cardinale Francesco Barberini, l’unico arbitro della vita quotidiana (ripetitiva e pesantemente controllata) del folle era il Mastro dei pazzi, il quale portava sempre con sé una frusta. Inoltre, in base alla retta versata, gli ospiti ricevevano trattamenti diversi e, secondo il loro comportamento (e non le loro patologie), erano divisi per padiglioni (ad esempio, quello dei criminali e quello dedicato ai bambini).
Nel 1725, Papa Benedetto XIII (1649-1730) ha ordinato il trasferimento del Manicomio in via della Lungara, sotto la giurisdizione dell’Ospedale Santo Spirito e la costruzione della nuova struttura ha avuto inizio nel 1727, affidata all’architetto italiano Filippo Raguzzini (1690-1771) e terminata nel 1729. Tuttavia, le condizioni dei degenti non sono migliorate, il loro numero è addirittura aumentato. Solo all’inizio della seconda metà del ‘700 è stato assunto un medico per i ricoverati. Prima di allora i medici potevano solo somministrare purganti e salassi.
Dal 1809 al 1814 l’amministrazione francese ha apportato molti cambiamenti, introducendo una regolamentazione per gli ospedali. Proprio intorno a questo periodo, nei modelli prestampati delle cartelle cliniche dei pazienti (introdotte per la prima volta nel 1819 da Domenico Gualandi, 1788-1865), sono comparse le prime diagnosi psicopatologiche e annotazioni di tipo medico e i degenti divisi in «curabili» e «non curabili». Il paziente viveva un vero e proprio annullamento, senza possibilità di svolgere alcuna attività stimolante (se non aiutare il personale ospedaliero nelle faccende in caso di buona condotta).
Ogni tipo di libertà negata non faceva altro che renderli più aggressivi e peggiorare le loro condizioni psicologiche e fisiche. Non venivano curati, ma semplicemente messi in condizione di non procurare problemi.
All’alba del ‘900 l’Ospedale psichiatrico è stato trasferito nella sede attuale, nel tempo allontanato sempre di più dal centro abitato e con l’aspetto di una vera e propria città, provvista di ogni servizio.
Oggi il Manicomio non è abitato da pazienti, ma animato da coloro che si recano a fare lunghe passeggiate e jogging nei 130 ettari del parco, ammirare la street art sparsa qua e là e visitare il Museo della Mente.
Conosciuto anche come Laboratorio della Mente, la sua creazione risale al 2008. All’interno del Museo del Santa Maria della Pietà esistono due macroaree, in una delle quali sono presenti tre stanze, dove il visitatore ha la possibilità di sperimentare i propri sensi e diventare esso stesso paziente grazie a installazioni interattive curate da Studio Azzurro. È possibile, inoltre, visitare la «stanza della sorveglianza», nella quale i folli trascorrevano la maggior parte del loro tempo, che oggi raccoglie molte testimonianze della loro creatività (una possibilità della quale godevano solo in pochi).
Nella seconda macroarea il visitatore ha di fronte a sé memorie e testimonianze di ciò che era l’istituzione del Manicomio. Sono presenti i fagotti, ovvero i pacchi nei quali erano conservati gli effetti personali dei degenti al momento del loro ingresso, la stanza nella quale il medico studiava le cartelle cliniche e, infine, una piccola e algida camera di isolamento.
“Il percorso rende il Museo un «Museo di Narrazione» e l’obiettivo non è solo quello di ricordare la storia passata, ma anche una storia che ancora deve accadere, nella mente di chi visita e nella comunità, la quale si fa carico delle esperienze acquisite nel museo e le porta nelle attività quotidiane della comunità stessa”. (Dottor Pompeo Martelli, Direttore Museo Laboratorio della Mente ASL Roma 1)
Il turista termina il suo percorso arricchito da un bagaglio di concetti e idee ancor più considerevoli rispetto a ciò che possedeva prima di entrare nel Museo.
Flavia De Michetti