Nella società della vittima la tolleranza è la nuova intolleranza che rischia di mettere a rischio la libertà di pensiero e le libertà fondamentali? Ne parliamo con Marco Bassani, docente universitario e autore del saggio “Tolleranza”
di Sonia Cassiani
“Essere vittime dà prestigio: impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima” scriveva Daniele Giglioli nel 2014 in “Critica della vittima”. E non vi è dubbio che la nostra società possa essere considerata a tutti gli effetti “l’era delle vittime”. La vittima, secondo il sociologo Jonathan Simon, ha sostituito il cittadino titolare di inalienabili diritti individuali come soggetto di riferimento della legislazione, e la vittima è per definizione un soggetto debole che chiede protezione anche a costo di perdere la propria libertà.
Nella “modernità” post-rivoluzione francese si è diffuso il concetto di “tolleranza” che nel sentire comune ha un’accezione positiva ed è associato a uno spazio maggiore di libertà di pensiero e di espressione. Ma è davvero così? O piuttosto, come esistono il “fascismo dell’antifascismo” e il “conformismo dell’anticonformismo” non è che la “tolleranza” ha generato un’intolleranza dei tolleranti che ci sta facendo scivolare verso un totalitarismo dolce?
Le cosiddette “identity politics” punto dirimente della New Left americana degli anni Sessanta e Settanta, movimento nato nei campus, hanno sicuramente dato un impulso fondamentale alla costruzione di una società basata sulla “concorrenza vittimaria” come la definisce il filosofo Alain Caillé, il fenomeno che oggi è definito” wokeism” e che vede il mondo come una federazione di minoranze da tutelare. Questo fenomeno, nato a sinistra, si sta diffondendo in maniera uguale e contraria anche a destra?
Di questo e molto altro, compreso il “grande rimosso” dell’era covidica, parliamo con il docente universitario Marco Bassani, autore del libro “Tolleranza” pubblicato nel 2023 da Liberi Libri di Macerata.
La tolleranza è un concetto negativo, si accetta un male minore per fare sì che la società non ne subisca uno maggiore, poiché estirpare il male potrebbe innescare conflitti sociali. Il concetto viene reso in inglese con due termini con accezioni diverse: “toleration”, con sfumatura negativa, ovvero l’accettazione di un’opinione o di un comportamento che non si approva e “tolerance”, assenza di pregiudizio, apertura mentale. A quali fatti dobbiamo applicare la prima ed a quali altri la seconda?
Sarebbe bello poter avere un preciso prontuario per applicare l’una o l’altra accezione del termine a seconda dei casi. Il Medio Evo cristiano tollerava molto più di quanto non si possa immaginare, ma sempre sulla base di un suggerimento di prudenza nella repressione dei comportamenti nocivi. Coloro i quali avevano il potere di reprimere erano spesso chiamati a sopportare ogni forma di devianza, proprio perché la repressione del male avrebbe potuto portare a un male maggiore. Ma su ciò che era in sé malvagio non era lecito nutrire dubbi.
Oggi al contrario non sappiamo più ciò che è bene e ciò che è male. Viviamo in un periodo di relativismo etico “forte”, fondato sulla piena coincidenza fra morale e inconoscibilità del bene. Quasi tutte le difese della “società libera” si fondano su di uno scetticismo morale ed epistemologico che sarebbe tipico del nostro tempo. Il postulato della fallibilità della conoscenza umana dovrebbe condurre direttamente alla preferenza per una società libera. In breve, se un tempo si riteneva che gli uomini dovessero essere liberi giacché ciò sarebbe in sintonia con la natura dell’essere umano, oggi si afferma che il medesimo fine sarebbe appetibile a causa della natura non dell’uomo, ma della conoscenza umana. E allora siamo costretti a adoperare tolerance e toleration a tutto, fatti e opinioni, comportamenti e apologie, purché naturalmente queste opinioni non mettano in discussione il nuovo soggetto unico, quello che la sinistra post-marxista ha costruito nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Ciò che può essere tollerato è in fondo solo quel che non offende un ipersensibile e molto fluido soggetto il cui primo ed esclusivo diritto è quello di non essere mai oltraggiato da un ipotetico altro.
Tu nel tuo saggio descrivi come nel passato la tolleranza sia stata impellenza della sovranità e brodo di coltura dello Stato, perché tutto ciò che va nella direzione del consolidamento del potere ha successo e tutto ciò che crea sacche di resistenza al potere si sgretola. Esempio, è stato così nel caso delle guerre di religione. La tolleranza epistemologica ed invece il dogmatismo scientista in tempi recentissimi che ruolo hanno svolto nei confronti del rafforzamento del potere?
La tolleranza dell’età moderna va di pari passo con la costruzione del cittadino dello Stato. Un soggetto nel quale l’appartenenza religiosa deve essere necessariamente irrilevante rispetto alla vera caratteristica della comunità politica moderna: quello di avere un capo politico unico. Il monarca deve essere al di sopra del conflitto tra cattolici e riformati: l’unità non va ricercata nella fede, ma in un dato politico, ossia nella figura del sovrano. La monarchia forte e moderna, incontestabile, diventa il fulcro della moderna statualità in quanto centro decisionale di ultima istanza, sala di comando unica e a tutto sovraordinata. La tolleranza è in breve un pezzo fondamentale di una posizione ideologica: quella del ceto degli aiutanti della monarchia, i servitori di uno Stato immaginato già come una macchina normativa e decisionale nella quale il sovrano è il garante delle posizioni di potere.
Oggi il potere è paradossalmente molto più fragile di quanto non lo fosse quattro secoli or sono. La capacità delle moderne democrazie di creare le metafore organicistiche che spiegano sia le ragioni del potere, sia il senso del nostro essere in una convivenza politica si è ormai avvizzita. Tutte le parole d’ordine appaiono fruste e stantie. Ecco che allora occorre chiamare a rapporto tutti gli intellettuali sotto la bandiera della religione di Stato (il politicamente corretto) e della scienza di Stato (quella che non ammette alcuna tolleranza per opinioni difformi). Le grandi dittature del Novecento avevano qualche problema con gli intellettuali, ma se la cavano egregiamente con le masse. La dittatura dolce di questi anni mostra un panorama opposto: enorme presa fra il ceto intellettuale e grande distacco da parte del popolo minuto. La scienza di Stato è il tentativo che sembra davvero ben riuscito di addomesticamento della classe dirigente da parte di una frazione della stessa classe. Il cuore di questa operazione culturale di vastissima scala sta in una parola e in tutti i suoi derivati “negazionismo”. Nato per contrassegnare con ben comprensibile disprezzo coloro che negavano l’Olocausto in quanto fatto storico, questo termine viene ormai usato per infangare un numero imprecisato di eterodossi. Chi ha mostrato dubbi sull’efficacia delle politiche di “contrasto” al COVID del tristissimo biennio 2020-22 è un semplice negazionista, così come lo è chi mostra perplessità di fronte a qualunque “narrazione” corrente, in primo luogo quella sul mutamento climatico di origine antropica, autentica religione civile di questi anni. In America chi ha ancora qualche dubbio sulla piena regolarità delle elezioni presidenziali del 2020 è chiamato “negazionista elettorale”, insulto ormai quasi al pari di razzista, omofobo, o sessista.
Con la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789 in Europa si ha la più decisa affermazione della tolleranza religiosa e politica. Dalla seconda metà dell’800 i principi di tolleranza stabiliti durante la Rivoluzione diventano parte delle Costituzione di vari stati europei. In USA nel 1791 abbiamo la ratifica del “Bill of Rights” (i primi 10 emendamenti alla Costituzione entrata in vigore nel 1789, nei quali sono precisati i diritti fondamentali di cui godono i cittadini americani). Il primo emendamento, in particolare, stabilisce per la prima volta nella storia l’assoluta tolleranza religiosa e politica. Da quel momento in poi, in America la libera manifestazione del pensiero diventa un dato acquisito assai più che in qualunque altra parte del mondo. Spiegami poi come da lì si arriva all’assalto alla libertà di pensiero durante la guerra fredda?
In America la libera manifestazione del pensiero era apparentemente più tutelata che in qualunque altro luogo al mondo. La dottrina costituzionale sembrava non ammettere eccezioni e costruiva fortilizi intorno a quelle poche e chiarissime parole approvate nel 1791 su libertà religiosa e di parola. Ogni mutamento sociale, ogni progresso tecnologico, sembravano produrre un ampliamento delle libertà e mai un loro restringimento. Per fare solo un esempio, la stessa pornografia, che si diffonde capillarmente dagli anni Sessanta in poi è stata protetta sulla base della libertà di manifestazione del pensiero. Le leggi che puniscono con la reclusione i “negazionisti” dell’Olocausto, che quasi tutti i Paesi europei hanno promulgato negli ultimi decenni, o quelle che impediscono la pubblicazione del Mein Kampf sono ancora inesistenti e per certi versi inimmaginabili. Ma le cose non sono poi così semplici. Se per quasi tutti i padri fondatori l’America doveva essere un vero paradiso libertario, già negli anni Novanta del Settecento compaiono le prime crepe. Le Alien and Sedition Laws (leggi sugli stranieri e sulla sedizione) furono approvate nell’estate del 1798 sull’onda di quella che veniva chiamata la French scare, ossia la paura che la Rivoluzione giacobini prendesse piede sul suolo americano. Le leggi stabilivano una serie di restrizioni sia nei confronti degli stranieri, sia dei cittadini americani per quanto riguardava la manifestazione del pensiero. Il primo emendamento, quello che stabilisce il diritto di ogni cittadino all’assoluta e incoercibile libertà di pensiero, non era più in vigore, superato da un semplice atto del Congresso. Ma anche nel corso della Guerra Fredda, soprattutto nel corso degli anni Cinquanta, la libertà di associazione e di manifestazione di idee comuniste fu fortemente limitata. La sinistra americana nel corso della contrapposizione nei confronti dell’URSS invece proclamava un’assoluta aderenza al primo emendamento. Il totalitarismo, affermavano i democratici, era innanzitutto un sistema che negava la libertà di espressione.
Negli ultimi quarant’anni, sul crinale della fine della Guerra Fredda proprio dal cuore della sinistra americana, ossia essenzialmente dalle università, e segnatamente dai campus delle più prestigiose accademie del mondo, Harvard, Princeton, Yale, MIT, Berkeley, è iniziato un movimento di restringimento delle libertà che si sta espandendo a macchia d’olio in tutto l’Occidente. Dal politicamente corretto degli anni Novanta, fino al movimento woke di questi anni, si è sviluppato un attacco al libero pensiero che non ha precedenti nella storia americana. Si tratta di una precisa ideologia post-marxista che ha i suoi sacerdoti, la sua ortodossia, ma è privo di un centro propulsivo. La vera novità è che non è imposto da un Re, un Papa, o un partito, ma è una forma di ingegneria semantica e di censura che deriva da molteplici fonti, in primo luogo la culla di tutto il post-marxismo, ossia la CRT (Critical Race Theory). Esiste una minoranza militante che controlla tutto il discorso pubblico, dalle università ai giornali e non ammette alcun contraddittorio sulle grandi questioni del nostro tempo, segnatamente sulle questioni identitarie, dalla razza, alle preferenze sessuali.
È possibile che ci sia un legame tra il progressivo avanzamento del “welfare state” che produce quale soggetto non più un uomo “artifex o faber” ma un “homo offensus” e l’umanesimo totalitario di cui parli nel libro? Le persone si ergono a vittime di una qualche forma di “hate speech” e pensano di poter trarre profitto o protezione da questa vittimizzazione ed al contempo lo stato può espandersi, legiferare, creare un’ideologia che diventa una “catechesi civile” che crei degli infedeli che servono proprio in un’ottica di perpetua autopromozione?
Certamente senza uno Stato che razzia la ricchezza e la redistribuisce, che promette tutto ai cittadini e segnatamente agli intellettuali che si pongono sotto la sua protezione, che si cura degli individui dalla culla alla tomba questo piagnisteo che va sotto l’etichetta di politicamente corretto non avrebbe alcuna possibilità di esistere. La dittatura del pensiero e sui pensieri che stiamo vivendo non è il frutto di un momento di transizione, un risultato del semplice declino della libertà quale ideale politico, ma è la conseguenza di un lungo processo di addomesticamento degli intellettuali ed è il risvolto, nel campo delle idee, dell’inesorabile marcia dello Stato nelle vite dei cittadini. Per ottenere questi livelli di obbedienza popolare a fronte di richieste di danaro e restringimento di spazi libertà senza precedenti nella storia recente (pensate a cosa sono riusciti a ottenere i governi dai propri cittadini negli ultimi tre anni: dall’Italia all’Australia, al Canada) vi è bisogno di un gruppo di intellettuali di professione diuturnamente impegnati a diffondere il verbo di Stato e la scienza di Stato. Ma soprattutto è fondamentale che tutti coloro che escono dal coro subiscano prontamente attacchi e gogne mediatiche. Il potere, e la pandemia ha solo esacerbato questa situazione assolutamente malsana, non ha mai avuto un dominio così incontrastato fra gli intellettuali. E la tattica per intimidire è quella tipica dei gruppi terroristi italiani degli anni Settanta: “colpirne uno per educarne cento”. Solo oggi si comprendono le conseguenze profondissime della statizzazione dell’intero comparto dell’istruzione: il fatto di avere reso scienza e cultura merci distribuite e prodotte da impiegati pagati (poco) per mezzo della fiscalità generale ha reso gli intellettuali veri e propri funzionari pubblici. Mai nel corso della storia umana la classe al potere ha potuto sottrarre oltre la metà delle ricchezze prodotte dalla società. È del tutto evidente che il potere ha oggi bisogno di corifei di professione.
Tu fosti sospeso dalla statale di Milano per aver condiviso un meme su FB che additava la vicepresidente USA, Kamala Harris, quale cattivo esempio. Sei stato accusato di “sessismo”. Chi sono stati in ambiente accademico i tuoi maggiori accusatori e chi invece ha difeso la tua libertà di opinione, peraltro per un fatto acclarato da quasi trent’anni, ovvero essere stata l’amante del futuro primo sindaco nero di San Francisco Willie Brown, che l’ha introdotta ai piani alti della magistratura e politica.
L’episodio è del 2020 e la sanzione della primavera del 2021, fortemente voluta dal Rettore, prof. Elio Franzini, oggi sotto processo penale per “concorsopoli”. Franzini è diventato Rettore nel 2018 grazie ai voti del personale non docente e dei rappresentanti degli studenti, mentre i suoi pari hanno eletto il suo rivale, Giuseppe De Luca. Nell’autunno del 2020 si è trovato a spalleggiare una consigliera comunale del PD che aveva letteralmente perso la testa per quel meme, insultandomi su Facebook e chiedendo subito al Rettore di punirmi adeguatamente. Senza neanche sentirmi il professor Franzini ha immediatamente obbedito a chi lo aveva eletto (tutte le rappresentanze studentesche sono di sinistra, anche se rappresentano poco o nulla, giacché si tratta di elezioni che hanno una bassissima partecipazione) e intervistato dai giornali ha detto “lo punirò”.
Tranne un paio di amici intimi, pubblicamente non mi ha difeso pressocché nessuno. Non ho ricevuto alcuna solidarietà nel mondo di cui faccio parte, ma non biasimo troppo i miei colleghi. Conosco troppo bene la codardia dei professori universitari. Durante il fascismo solo undici di loro si rifiutarono di giurare fedeltà al regime. In generale, il docente universitario è prono di fronte al potere, figurarsi di fronte a quello accademico. La carriera è lunghissima e, segnatamente in Italia, strutturata in maniera tale da essere un esercizio di servilismo senza paragoni al mondo. Ormai i professori sono di fatto “la guardia del corpo intellettuale degli Hohenzollern”, ma mentre nella Berlino dell’Ottocento ciò era vanto e merito, oggi questa esaltazione dell’esistente ha luogo senza troppi proclami, né entusiasmi particolari. Si tratta solo di un piccolo prezzo da pagare – e i miei colleghi lo pagano volentieri – per sopravvivere con misere paghe pubbliche. A proposito di paghe e miserie economiche, nulla fornisce con maggiore vividezza il quadro della mediocrità che circonda il mondo universitario come le intercettazioni dell’inchiesta penale di Franzini. Quando questi comprende che lui e i suoi sodali sono riusciti a cacciare tutti i concorrenti da un concorso universitario, liberando la strada al loro candidato, appare entusiasta e si lascia andare. “Occorre brindare con Dom Perignon in calici”, esulta al telefono. “Ma quanto poco vi pagheranno? Difficile immaginare una marca di champagne più da parvenu”, commentavano ridendo i miei amici non accademici.
In ogni caso, è solo la classe intellettuale ad essere sottoposta alle occhiute attenzioni della polizia del pensiero. Ma la stragrande maggioranza dei lavoratori della mente è politicamente corretta per sua stessa natura – addestrata a un’opera di piaggeria incessante, nei confronti del maestro e di tutti gli ordinari, del corpo accademico locale e di quello che fa parte del settore nazionale fin dai tempi della laurea – e non ha quindi alcun bisogno di essere censurata o rieducata. L’habitus del chierico di professione è l’adulazione e se per caso così non fosse, una decina di concorsi nell’arco di un quarto di secolo (nella più blanda delle ipotesi) sono destinati ad addomesticare anche l’intellettuale più temerario. Publish or perish (pubblica o muori) era il vecchio motto, ma soprattutto qui dovrebbe essere rivisto in un semplice adula o ti tocca andare a lavorare.
Quelli che tu definisci i “chierici” (intellettuali, prof. universitari, insegnanti) si autodisciplinano ed autocensurano perché sono oramai funzionari pubblici distributori di ideologia; le “guardie del corpo intellettuali del potere”. Ogni enunciato è passibile di essere considerato discriminazione: oltre ai soliti, sessismo, razzismo ed ageismo abbiamo il bodyshaming (Forattini non avrebbe potuto ritrarre Spadolini o Andreotti) o l’abilismo, la preferenza per i non inabili. Dall’altra parte, abbiamo Elon Musk ha fatto un tweet dicendo che non accetterà il termine “cisgender” sulla sua piattaforma e sospenderà chi lo usa, quindi abbiamo la guerra tra “progresso” e “reazione”. Come si concilia tutta questa permalosità con l’art. 21 della Costituzione italiana o il primo emendamento della Costituzione USA?
È evidente che questo parossismo woke sta ormai generando una serie di reazioni. Il popolo incomincia a colpire duramente i produttori che decidono di esagerare, al punto che lo slogan di questi ultimi mesi è go woke, go broke, ossia seguite i dettami woke e finirete in bancarotta. Da Netflix, a Disney, alla Budweiser, innumerevoli sono gli esempi di società che stanno perdendo miliardi di dollari per essersi fidati dei gusti una piccola élite e aver dimenticato la stragrande maggioranza della popolazione. Nello specifico “cisgender” è davvero un termine fantasmagorico che riassume perfettamente tutta l’ideologia genderista. Significa che una persona non ha particolari problemi con ciò che le è accaduto alla nascita. Questo accidente biologico (sesso) non viene vissuto come un dramma dal quale uscire con castrazioni, ormoni, operazioni costosissime, ma viene bene o male accettato. Un uomo intrappolato in un corpo da uomo (così come una donna intrappolata felicemente in un corpo da donna) deve avere in ogni caso una sua identità nello spettro gender. Non può essere “normale”, perché la norma è stata scardinata per sempre, ma deve essere incasellato nello spettro gender, che conta sette macrosettori (agender, cisgender, genderfluid, genderqueer, intersex, gender nonconforming, e transgender) e infinite varianti.
Tu sostieni che il discorso della censura interessi meno l’uomo comune di altri pericoli perché non viene percepito come un ostacolo alla quotidianità, ma esiste il ruolo importantissimo dei social network, Facebook (o meglio Meta, che comprende anche Instragram) è di fatto lo Stato, anche se digitale, più popoloso al mondo. Non credi che gli accordi, fatti a monte tra Zuckerberg e la politica per poter operare indisturbato come “non editore” rivestano un ruolo nell’indottrinamento delle masse addirittura più forte di quello svolto dagli intellettuali? Intendo, io uomo comune non voglio subire un BAN quindi o mi adatto al “gattinismo” o mi adeguo preventivamente alla “community”, che mi sembra coincida con l’ideologia e il linguaggio dei democratici americani
La sinistra ha in mano in Occidente essenzialmente l’intera industria culturale, dai social media, alle università, ai giornali. Ti scrivo dall’America, dove se non ci fosse FOX, non esisterebbe una voce fuori dal coro. Ricorderemo negli anni a venire il periodo in cui un ricchissimo imprenditore non di sinistra aveva in mano X. Sono convinto che tra poco se ne libererà. L’uomo della strada su Facebook in generale non fa neanche commenti politici, anche perché gli fanno subito comprendere che aria tira e quanto sia meglio che posti foto di cibi e bevande. Quello che segnalavo nel mio libricino è che la censura grossa, quella che implica la gogna mediatica dura (non ho mai guardato troppo, ma mi dicono che nel mio caso per aver semplicemente condiviso un meme, ossia una vignetta, che non conteneva altro che verità acclarate e neanche una parolaccia, si sono sprecati decine di fogli di vari quotidiani nazionali) riguarda solo i possibili partecipanti al discorso pubblico. Nel mio caso, insegnando la storia del pensiero politico nella città più importante d’Italia e non essendo notoriamente un uomo del PD, il problema non era solo quello di poter partecipare al dibattito pubblico, ma di essere un errore piuttosto grave del mondo accademico. Una sfumatura, che da anni non passava inosservata. Il fruitore non intellettuale dei social può essere colpito dalla censura, la logica è sempre quella di colpirne uno per educarne cento, ma non certo dalla gogna.
Parliamo del cosiddetto “wokeism”, tu sostieni che nasca per espungere il peccato originale della schiavitù e poi della segregazione razziale degli stati del Sud, in vigore fino agli anni Sessanta, e che sia una reazione Yankee per obliterare questo passato disdicevole attraverso vari passaggi: non discriminazione, inclusione, per poi portare al momento attuale di corteggiamento delle più inopinate fobie. Visto che l’Occidente è oramai rappresentato tout court dagli USA e da lì tutto parte, quali prospettive vedi in ambito accademico per il pluralismo delle idee?
Io credo che questa sia una moda, ma le mode possono durare decenni, difficile che dallo stesso mondo che ha prodotto il politicamente corretto nascano le reazioni adatte a trascinarci fuori da questo incubo. Però gli Stati Uniti hanno una particolarità diversa dal resto dell’Occidente: esistono i tribunali e non sempre danno ragione alle autorità accademiche. Gli accordi per chiudere le gogne ai professori incominciano a costare molto care ai gruppi di censori e anche se le grandi università sono ricchissime, esse vivono di grandissime donazioni private. Il clima antiebraico che si respira in queste settimane, ad esempio, di vero e proprio assalto agli studenti ebrei, sta convincendo molti mecenati a ritirare i soldi da queste fabbriche dell’ideologia woke che un tempo erano i migliori quartieri accademici del mondo. Insomma, go woke, go broke rimane la nostra più ragionevole speranza.
Nel suo libro “Populismo” del 2017 Alain de Benoist sostiene che la “lotta contro tutte le discriminazioni” è la vera discriminazione, quella operata dalle minoranze contro un idealtipo di normalità più o meno corrispondente al cosiddetto Wasp. Alcuni autori americani, anche critici contro la New Left, sostengono tuttavia che il linguaggio “vittimistico” sia stato adottato dall’Alt Right negli USA e in generale dall’estrema destra, anche europea, per rappresentare “il maschio bianco eterosessuale autoctono (cattolico o protestante)” come la vera vittima. Atteggiamento ben rappresentato dallo slogan “il vero razzismo è contro di noi” molto usato nei social. In Italia movimenti come Pro Vita e Famiglia chiedono spesso interventi censori su spettacoli televisivi e social. È possibile affermare che esista un “wokeism” di destra? E se sì, è egualmente pericoloso dell’originale per la libertà di espressione?
Come accennavo, da sempre la destra, qualunque essa sia, ha lottato contro la libertà di pensiero. Fascisti, conservatori sociali, cristiani tradizionalisti da sempre vorrebbero che le autorità penetrassero nella coscienza dei cittadini. Come diceva Rousseau, “se è bene saper utilizzare gli uomini così come sono, molto meglio è renderli quali si ha bisogno che essi siano, l’autorità più assoluta è quella che penetra nell’intimo e si esercita sulla volontà non meno che sulle azioni dell’uomo. Alla lunga i popoli sono ciò che il governo li fa essere”. Quindi il sogno di governi autoritari o paternalistici che conducano i cittadini verso la virtù civica, comunque definita, fa parte della storia di ogni formazione politica, dai diretti eredi di Rousseau, i rivoluzionari francesi, a quelli indiretti, comunisti e fascisti. Tranne pochissimi casi nella storia, chiunque agisca in politica non mira all’ampliamento delle libertà dei singoli, ma alla loro restrizione. Oggi però la torcia della censura è stata stabilmente accesa ed è portata in tutte le città dalla sinistra mondiale, che ovviamente ha una presa sulle élite neanche lontanamente paragonabile a quella che hanno tradizionalisti o conservatori sociali.
Questa idea di voler rendere il mondo “a safer place” potrebbe essere scappata dai “laboratori” dei campus USA ed aver contagiato i cittadini di Italia, Canada, Australia che hanno tollerato in nome di una fantomatica “sicurezza” soprusi mai visti prima nella storia di questa parte del mondo e negazione dei diritti fondamentali o nasce altrove?
Ted Cruz ha scritto recentemente che le università sono il laboratorio di Whuan del virus woke. L’Occidente è solo l’America, ormai l’Europa non ne è che un’appendice molto più povera. L’Italia ha avuto una leadership di qualche settimana nelle folli politiche anti-Covid, e certamente nel mondo di lingua inglese ciò che è successo in Canada e Australia, ma anche in molti Stati americani, era difficile da immaginare. Mi rimangono impresse le parole della governatrice del Sud Dakota, Kristi Noem, che si rifiutò di adottare il lockdown ad aprile 2020 sostenendo che né la Costituzione federale, né quella del suo Stato le consentivano di prendere misure draconiane irrispettose di qualunque diritto dei cittadini che i governi cinese e dei paesi europei avevano adottato. La coraggiosa statista americana non aveva ancora visto nulla di ciò che sarebbe accaduto nel mondo intero, ma ci aveva visto giusto, esattamente come lo Stato più virtuoso dell’era lockdown, la Svezia. Le aree che meno si sono fatte prendere dalla psicosi covidaria sono infatti anche quelle che hanno avuto i minori danni sia sul breve che sul medio periodo. In America il dibattito sulla follia che ha visto chiusure, mascherine, esperimenti di vaccini su persone a rischio pressoché zero, sta prendendo corpo e ormai tutti mettono in discussione come minimo la chiusura delle scuole e le mascherine (la letteratura scientifica ha assodato che non sono servite davvero a nulla, anzi che sono state dannose). In Italia nessuno ha il coraggio di ammettere i propri errori e le contrapposizioni del biennio covidario rimarranno per sempre inalterate nella storia politica di questo sfortunato paese.