Dopo l’appello del Quirinale, occorre ritrovare lo spirito di unità nazionale come nel dopoguerra.
di Antonio Calicchio
L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo mette a dura prova l’assetto democratico dello Stato che abbiamo conosciuto sinora. I provvedimenti restrittivi di numerosi diritti sono accettati dalla popolazione spesso con piena approvazione, talvolta con difficoltà, ma anche con enorme rassegnazione, al fine di un interesse comune e a garanzia di tutti. Tuttavia, le norme dello Stato democratico di diritto differiscono da quelle utilizzate in Cina. E differiscono in quanto, fra i molteplici obiettivi di un sistema democratico, si individua quello di assicurare che ogni decisione non sia estrinsecazione di una sola persona, ma sia oggetto di condivisione, controllo ed eventualmente correzione ove si riveli inadeguata.
Certo, in questa situazione emergenziale i mutamenti di indirizzo potrebbero essere considerati fonte di destabilizzazione per una popolazione già provata, ma anche strumento per raggiungere l’obiettivo comune, grazie alle indicazioni utili provenienti da posizioni diverse. Del resto, anche sotto un profilo medico-scientifico, più volte, abbiamo assistito, in questi giorni, di fronte a un “nemico” ignoto e invisibile, a cambiamenti di indirizzo, correzioni e precisazioni sul modo di comportarsi e anche sulle stesse “terapie”. Altrettanto deve accadere per ciò che concerne gli interventi normativi, anche in emergenza, con l’obbligo, da parte delle istituzioni, di adeguarsi rapidamente al modificarsi della situazione, attraverso un controllo effettivo del Parlamento e delle Regioni.Tante discussioni, in questi giorni, sono state fatte sulla riduzione dell’attività parlamentare al minimo indispensabile, a “ranghi” ridotti o, perfino, sulla sua chiusura. Il Parlamento è il perno attorno al quale orbita la democrazia; e il confronto fra i parlamentari e con le minoranze è ancor più essenziale in questa fase in cui le decisioni del Presidente del Consiglio dei Ministri incidono anche sulla politica economica e sociale della Nazione.
Il rapporto Stato/Regioni è stato molto complesso e talvolta conflittuale, ponendo in luce – ancora una volta – i limiti del nostro regionalismo dopo la modifica del titolo V della Carta costituzionale, del 1948. Vi è confusione di poteri e competenze che, pure in questo ambito, non permette ai Presidenti di Regione di poter contribuire sulla formazione di norme che incidono sul proprio territorio e sull’attività amministrativa che dovranno gestire, ma – e questa è la cosa più grave – vengono loro sottratti poteri decisionali. Molti gli esempi. Con il Dpcm del 22 marzo scorso, che blocca tutte le attività economiche, si è attribuita, al Prefetto, la possibilità di valutare la legittimità o meno dello svolgimento di attività collegate a quelle elencate nell’allegato al provvedimento.
Il Presidente di Regione e gli organi regionali sono esautorati, mentre il Prefetto, divenuto il fulcro delle decisioni nel territorio, svolge solamente una funzione informativa, nei confronti dei Presidenti di Regione, rispetto a quanto deciso, senza alcuna possibilità di questi di poter intervenire, in qualche maniera, sul contenuto della decisione. Non ci si è domandati se le caratteristiche di un’azienda, la capacità di riconvertirsi per una finalità emergenziale possa essere conosciuta e indirizzata meglio da chi conosce ed amministra un determinato territorio?
Democrazia e diritti
Auguriamoci che, di fatto, la lungimiranza e il senso pratico dei Prefetti induca a confrontarsi costantemente e collaborativamente con gli organi regionali. Il nostro ordinamento si è trovato impreparato dinanzi all’emergenza, ma la nostra inventiva e l’elasticità della Costituzione devono consentire un immediato adattamento al nuovo contesto, con un reale intervento del Parlamento, delle minoranze e delle Regioni, sempre a salvaguardia del rispetto dei principi fondamentali.
D’altra parte, il Presidente della Repubblica ha esortato ad agire come nel dopoguerra, nella lotta al virus e nella voragine economica che ne fa seguito, con quello spirito, quell’impeto, quella consapevolezza e quella solidarietà. Oggi, le circostanze sono diverse, a causa di molteplici ragioni. Allora, noi avemmo un fenomeno impressionante testimoniato dall’Assemblea Costituente in cui vi erano partiti che proponevano, per il futuro dell’Italia, concezioni opposte, non tanto in termini di modalità di risoluzione dei problemi, bensì in termini di “sistema”. Ed infatti, vi era chi risultava schierato con la democrazia liberale dell’Occidente, chi perseguiva la fuoriuscita dal capitalismo, nonché l’instaurazione di un regime come quello sovietico.
Come è stato possibile, quindi, che partiti diversi riuscissero nella costruzione di un’opera comune come fu la Costituzione, lavorando insieme apparentemente con molta più facilità di quanto sembra possibile oggi?
Politologi e costituzionalisti chiariscono che adesso alla categoria dell’avversario politico è stata sostituita quella del nemico. E che si registra una propensione a delegittimarlo. Nel 1945, non era così. Ed infatti, allora i partiti erano vissuti, dagli Italiani, come espressione delle proprie identità poiché vi era un autoriconoscimento nell’essere appartenenti alla Dc, al Pci, al Psi, al Pli. Ha scritto Alessandro Pizzorno che i partiti avevano fornito, e fornivano, identità collettive che, in un Paese come l’Italia, erano più forti dell’identità nazionale. La Francia aveva creato quell’identità attraverso lo Stato.
L’Italia, costituitasi in Stato unitario, nel 1861, non ha mai avuto la forza di dare un’identità collettiva diffusa e sentita. Per effetto di svariate ragioni. Si pensi al conflitto con la Chiesa. La maggioranza degli Italiani seguiva assai più il parroco che il governo. Non era forte, quindi, l’identificazione con lo Stato. Ed invece, divenne forte quella coi partiti, e paradossalmente il partito che più si adoperò per rafforzare lo Stato, si avvalse della prima forte identità politica di massa: vale a dire il Partito fascista. Ed ecco come e quando si struttura il legame identitario degli Italiani coi partiti: è l’8 settembre 1943, quando quel rimasuglio di Stato che esisteva va al Sud, mentre al Nord rimane, fino a scomparire, il governo Quisling di Salò. Sono i partiti che, in specie nel Settentrione, divengono insieme espressioni di identità, di attività comuni e anche di statualità. Saranno loro, nel dopoguerra, a rendere possibile il funzionamento del sistema. E l’uomo-simbolo di quella vicenda è Riccardo Lombardi. Opera nel Cln del Nord, conosce il cardinale Schuster e diviene Prefetto di Milano. E’ legittimato dalla Resistenza che si oppone ai nazisti, a ciò che è divenuto il nemico comune degli Italiani. Si tratta di un punto fondamentale: l’importanza che ha la Resistenza nel dare forza ai partiti del Cln. Un supporto identitario che, poi, condurrà alla redazione della Costituzione. E in ciò consiste l’elemento più significativo. Quando parlo della Costituzione italiana e la confronto con la coeva legge fondamentale tedesca, sottolineo che questa non è figlia di una Assemblea Costituente liberamente eletta dai cittadini tedeschi ed espressione di sovranità nazionale. Al contrario, è frutto di una assemblea di poche persone nominate dai governatori dei Lander, su direttiva dei governi Alleati. E quel testo diverrà vigente solo dopo aver avuto il loro avallo: non nasce, dunque, come espressione di sovranità.
E perché la Germania, Paese sconfitto come l’Italia, subisce quella procedura e invece l’Italia adotta, con referendum popolare, la decisione fondamentale su repubblica o monarchia e, poi, la Costituente – eletta dai cittadini – senza interferenze di nessuno, scrive una Costituzione? Perché alle spalle l’Italia aveva la Resistenza. Che aveva formato un gruppo di guida capace di divenire interlocutore dei governi Alleati e che non può non essere riconosciuta come la nuova classe dirigente italiana. Risiede qui lo straordinario patrimonio storico, civile e democratico degli Italiani. Quella situazione ha fatto sì che noi, con un nostro atto – il decreto Luogotenenziale n. 98 – decidessimo il nostro futuro destino. Chi non si riconosce nella Costituzione e considera la Resistenza una vicenda di parte altrui, è bene che ristudi la Storia e si renda conto che, senza la Resistenza, la Costituzione non sarebbe stata possibile. Quel passaggio è anche il momento di massima legittimazione dei partiti i quali hanno la forza di manifestare l’atteggiamento di solidarietà respirata nella lotta di insieme contro il nemico comune. Con una specificazione fondamentale, e cioè, come asseriva Pietro Nenni, che, in ogni caso, nella polemica politica, il linguaggio doveva sempre essere quello che si usa in una battaglia delle idee e non in una guerra tra persone. Perché l’attacco personale era ciò che aveva caratterizzato il fascismo. In un sistema democratico, i partiti politici dovevano coltivare la consapevolezza di essere ciascuno portatore di una verità parziale e non di una verità assoluta. Sergio Cotta, filosofo e giurista cattolico, mio maestro alla Sapienza, il quale aveva, dentro di sé, una verità che, in termini di fede, non poteva che considerare la Verità, ebbe a trasferirmi l’idea che il valore massimo della Costituzione scaturiva dal fatto che nessuno era portatore di verità assolute e che un articolo della Carta – il 49 – spiega come, mediante i partiti, i cittadini concorrano a determinare la politica nazionale. Insomma, concezioni diverse sono legittime, ma devono trovare un punto di equilibrio. E la Costituzione fu realizzata con tale spirito.
Pertanto, questo è il senso della ricostruzione storica che bisogna adesso compiere. E’ questo lo spirito, sono queste le modalità da riscoprire come bussole in questo momento complicato, nell’ora più buia. Oggi, soprattutto dobbiamo dimostrare di saper usare quella lezione. Proprio oggi che, invece di “respirare solidarietà”, inaliamo, nei polmoni, un nemico invisibile che è contemporaneamente dentro e fuori di noi. Adesso, come dobbiamo comportarci e come ricostruire quella sintonia di popolo e politica, di società civile e società politica? I fatti esterni, il nemico invisibile, appunto, dovrebbero essere già più che sufficienti alla creazione di un sentimento che è insieme di autoconservazione e di solidarietà verso gli altri. Personalmente, sono persuaso che nella nostra collettività, gradatamente, è proprio quel che sta accadendo. Anche perché questa storia ha avuto inizio senza che nella coscienza, di gran parte dei cittadini, si percepisse l’esigenza di subordinare le nostre egoistiche abitudini alle ragioni di contenimento e rispetto delle misure coercitive. Abbiamo impiegato un po’ di tempo a comprendere ciò! Qualcuno afferma: “In Cina si fa prima”. In quel Paese, non è complicato: basta un ordine. Però, il confronto tra una democrazia e un regime autoritario, in situazioni di emergenza drammatica, è un confronto in cui le somme si tirano alla fine. Non è dubbio che quando un regime autoritario dice: “Tutti in casa”, vi si resta con maggiore osservanza che dipende dalla consapevolezza del potere degli apparati repressivi. Da noi, le misure restrittive sono efficaci via via che la coscienza collettiva ne assorbe il significato e lo interiorizza. Una democrazia funziona in questo modo. Qualcuno osserva: “Impiega più tempo. Forse troppo”. Ma io aggiungerei un punto interrogativo. Perché i regimi autoritari, ancor prima di accettare la gravità della situazione, condannano, per diffusione di notizie false e tendenziose, i medici che lanciano l’allarme. E’ in quel tipo di raffronto che ci rendiamo conto che, per sapere le notizie, noi abbiamo la trasparenza, i mezzi di informazione, la libera stampa. A mio avviso, la nostra condizione attuale è quella di un Paese nel quale lo spirito di solidarietà stia prevalendo a passi da gigante. Le città sono deserte, il jogging a grappoli non lo vediamo più, la consapevolezza che il medico rischia di morire per noi è penetrata nelle coscienze.
Democrazia e diritti
Per quanto attiene alla politica, giova notare che è sua responsabilità rispettare i sentimenti collettivi testé descritti. Rispettarli, non negarli. E non avrebbe senso alcuno pretendere che tutti siano d’accordo su tutto: ciascuno può ritenere di avere il suo contributo da dare. Ma il clima non può essere quello che caratterizza la “normalità” del confronto e della dialettica politica. Poi, è innegabile che, nel giro di qualche giorno o settimana, i linguaggi siano venuti cambiando, anche in prospettiva positiva. E se è vero che appaiono sui media posizioni arcigne di critica delle misure adottate, non è meno vero che, nell’insieme, l’appello del Capo dello Stato si faccia sempre più strada. In un ambiente sociale del tipo che abbiamo cominciato a vedere, chi ricusasse quell’appello e si comportasse, in ambito politico, con quegli atteggiamenti ostili e distruttivi che hanno contrassegnato altre fasi pre-covid 19, desterebbe un senso di fastidio nell’opinione di molti cittadini. Perché ora gli Italiani sentono, ben più di ogni altra cosa, il bisogno di unità. Comprendono che è indispensabile stare attenti per mettere riparo laddove si manifestino situazione negative. Ma che vi sia guerra politica, mentre vi è guerra al coronavirus, ritengo che susciti, in tutti e ciascuno, la sensazione di qualcosa di inutile e fuori luogo. All’interno dell’edificio europeo, poi, sono anni che, da quando sono cresciuti i debiti pubblici di alcuni Paesi, si è determinata una frattura fra Stati del Nord e quelli del Sud. Frattura connessa al rischio della condivisione dei rischi: il rischio che i Paesi del Nord Europa – non da oggi, ma da anni – non intendono correre è di dover condividere i rischi finanziari provocati dai Paesi del Sud. Ma ciò non rappresenta affatto una novità.
Speriamo ed aspettiamo, dunque, che la situazione – mortificante per tutti ed umiliante per alcuni – migliori e che ci arrivino notizie rassicuranti sul fatto che il morbo si sta allontanando.