di Antonio Calicchio
Democrazia e verità, rappresentano una endiadi che solleva l’interrogativo per il quale se democrazia ha finito col significare “parlare alla pancia delle persone” e dire quel che gli elettori si aspettano senza alcun rispetto della verità delle cose, allora quale potrà essere il futuro di questo istituto politico?
“Dal 1789 la politica si è concentrata nella denuncia dell’imbecillità del tiranno e ha fornito le istituzioni democratiche che, per quanto limitate, sono infinitamente superiori a qualunque stato di antico regime. Nel momento in cui il web ha dato visibilità politica al resto dell’umanità, è opportuno concentrarsi sul problema complementare, della naturale propensione dell’umanità verso le tenebre”(Ferraris).
Contro i populismi, l’arte del buon governo non può ignorare l’idea di verità. L’umanesimo è fondamentale per salvare la democrazia. Come detto, dalla Rivoluzione francese, la politica ha fornito la democrazia e le sue istituzioni che, sebbene limitate, tuttavia sono superiori a qualsiasi stato dell’ancien régime. Del resto, quando si discute di democrazia, si parla di tecnica, in molteplici sensi. Il senso più banale è quello della circolazione delle idee con cui la tecnica aiuta la democrazia, così come la stampa, aiuta la democrazia, perché questa serve per formare le opinioni. Ma esiste un terzo senso in cui la tecnica è decisiva per la democrazia. Platone parlava di basilikè téchne, dell’arte regia, nel senso che la capacità di governare è una tecnica. E quella forma di spontaneismo per cui si sostiene che la società civile governi, e che i politici e le loro tecniche siano inutili, è uno spontaneismo che non ha alcuna rispondenza con la realtà. Anche la libertà ha una tecnica difficile e i politici la conoscono meglio di coloro che ci lavorano a mani nude. Nel voler cercare almeno due buoni motivi per cui non si può rinunciare ai valori cognitivi all’interno della democrazia, è da dire che essi si possono ricavare tutti dalla storia. I Tedeschi erano esaltati nel febbraio 1943, quando sono stati spinti alla guerra totale da Goebbels. Chiaramente, ciò era un errore; se solo avessero riflettuto, si sarebbero comportati diversamente. Questo costituisce già un eccellente motivo per mostrare che la mitologia, in questo caso, non funziona all’interno della democrazia. Il secondo è che i valori cognitivi, contrariamente a quello che si pensa, non sono valori oppressivi, che tendono a conculcare le persone. Essi sono l’unica difesa che i deboli posseggono. Il ricco e il potente possono anche fare a meno della verità; ma il debole trova in essa l’unica forma per tamponare l’aggressività dei potenti.
Se, da una parte, esiste il populismo politico, dunque, dall’altra, esiste il populismo estetico, secondo cui il gusto della maggioranza, nella letteratura, nell’arte, nella musica, ha sempre ragione.
Viviamo in un’epoca di flusso, assediati da consigli, suggerimenti, valutazioni; grazie ai social media, siamo diventati tutti recensori e abbiamo abbattuto l’autorità di ogni intermediatore culturale. Mai, come in questo periodo storico, i confini tra generi, pratiche e influenze sono stati tanto labili: vale tutto e il suo contrario in un continuo slittamento di significato. È il trionfo dell’egualitarismo e dell’orizzontalità vagheggiati dai tecno-entusiasti all’inizio del nuovo millennio o una nuova forma, più sfuggente e liquida, di conformismo?
Ed infatti, siamo immersi nel blogging orizzontale, colpiti da spunti che arrivano da ogni direzione, sempre, senza tregua. Ma il trionfale disordine del web 2.0 – 3.0 – 4.0, l’accesso diretto e immediato a tutto, si è davvero risolto nel paradiso di egualitarismo, libertà e creatività immaginato agli inizi del terzo millennio? Certamente, ha decretato l’emarginazione della figura dell’intellettuale, o, meglio, di qualunque forma e categoria sociale ad essa connessa, di mediazione culturale. Siamo tutti critici e opinionisti e sono i social media stessi ad accreditarci come tali in una moltiplicazione frattale e istantanea dei nostri giudizi a proposito di qualunque cosa. E’ il trionfo della vox populi contro l’autorità di ogni élite. Anziché affrancarci dalle catene del consumo coattivo di cultura massificata, la rete ne è stata colonizzata ed è rimasta vittima di quella nuova forma liquida di conformismo definita populismo estetico: una gigantesca massa gravitazionale, nell’enorme spazio virtuale a nostra disposizione che ingloba ed assorbe tutto ciò che le ruota attorno e che smonta ogni complessità. In musica, ha preso i contorni leggiadri del pop optimism, un flusso di perfetta musica da intrattenimento elegantemente confezionata che intriga senza disturbare. In letteratura, ha prodotto matrimoni forzati tra alto e basso, come il Nobel a Bob Dylan: la dittatura del rumore di fondo.
Ma l’avere accesso a tutto non significa conoscere veramente tutto. Il populismo estetico dà l’impressione di essere in possesso di verità culturali che, in realtà, non sono tali. Da ciò scaturisce l’antipopulismo populista, nel senso che “per il populismo estetico, la maggioranza ha sempre e comunque ragione: non c’è alcuna ascesa spirituale da compiere (ad es. come autoeducazione alla varietà o alla storicità del gusto). Da qui alla rivolta contro le élite culturali il passo è breve: sino all’intolleranza verso qualsiasi forma di complessità. Vox populi, vox dei, semplicemente” (Pedullà).