RIFERIMENTO STORICO E IDEALE DELLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA DEL 1948
La nostra Repubblica, malgrado instabilità, crisi politiche ed incertezze giuridiche, è rimasta tuttavia solida nella sua architettura istituzionale, in forza di una Costituzione concepita per l’Italia dell’avvenire
di Antonio Calicchio
Il 1° luglio scorso, ricorreva il 173° anniversario della Costituzione della Repubblica Romana, cioè quella Costituzione cui, in un itinerario storico ideale, si ricollega la Costituzione della Repubblica Italiana, del 1948, quale punto di riferimento centrale, e che risulta incisa sul “Muro della Costituzione Romana”, presso il Belvedere, del Gianicolo, a Roma, dal 2011.
La corrispondenza è esplicita nell’art. 1 dei due testi. Ed infatti, l’art. 1, della Costituzione Romana, recita: “La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica”; lo stesso articolo della Costituzione Italiana prevede: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
La differenza consiste nella più profonda incisività formale e nello spirito rivoluzionario delle parole utilizzate dai repubblicani romani, in confronto a quelle, più misurate giuridicamente, dei costituenti italiani. La sostanza è uguale. Attraverso quell’art. 1, si intendeva lasciare, il 1° luglio 1849, da parte di G. Mazzini, G. Garibaldi ed altri costituenti, mentre la Repubblica stava cedendo alle armate francesi del generale Oudinot, un estremo messaggio ideologico al giudizio degli Italiani e dei cittadini liberali e progressisti d’Europa, che avevano scorto, nel tramonto del potere temporale e nell’inizio della terza Roma, il futuro di una nuova Italia, democratica e moderna.
Il testo della Costituzione Italiana reca la data del 27 dicembre 1947, venne approvato, con votazione – quasi – unanime, dall’Assemblea Costituente, nella seduta del 22 dicembre stesso anno. I termini-chiave sono i medesimi: “repubblica democratica”, “popolo”, “sovranità”. E, in ogni disamina storico-giuridica, termini uguali possono esprimere, se non significati, echi ed evocazioni differenti, ove impiegati in contesti politici, storici e sociali distanti fra loro. Del resto, nel caso specifico, i costituenti del 1849, assediati dai nemici e sotto le bombe delle batterie francesi, e i costituenti del 1948, operanti in situazioni di pace, legati da un idem sentire, si trovavano al centro di rinnovamenti fondamentali nella storia d’Italia. Ed invero, non sarebbe caduto il potere politico ed egemonico della Chiesa, se, nel 1848, l’Italia e l’Europa non fossero state attraversate da guerre, rivoluzioni, scontri sociali, dissidi, anche di natura culturale ed economica, in quella che venne definita “la primavera dei popoli”. Parimenti, non vi sarebbe stata Assemblea Costituente, nell’Italia del 1946-47, se non vi fossero stati il ventennio di dittatura fascista, una guerra persa, la tragica esperienza dell’Italia “divisa in due”, come la definì B. Croce, il sacrificio di numerosi patrioti nella Resistenza, l’immiserimento dell’Italia sconfitta, la complicata rinascita, esistenziale e morale, degli Italiani, la fine della Monarchia.
Allora, l’Italia era divenuta una repubblica, a seguito di libere elezioni, vale a dire mediante modalità, forme ed istituti di democrazia e libertà. Pure i duecento membri dell’Assemblea Costituente della Repubblica Romana erano stati eletti, col decreto del 29 dicembre 1848 – quando il pontefice era fuggito da circa un mese – che indiva le elezioni per il gennaio successivo, da 250.000 cittadini. In Italia, per la prima volta, si votava con un sistema non censitario, come, ad es., era accaduto, qualche mese prima, in Piemonte, e con diritto di voto esteso a tutti i cittadini, che avessero compiuto 21 anni (suffragio universale, diretto e pubblico maschile). Nella repubblica mazziniana, quindi, si realizzava un principio essenziale della moderna democrazia, ovverosia la fine della distinzione per censo e l’uguaglianza dei diritti, che avrebbe raggiunto la completezza storica col voto alle donne, nel 1946.
“Dunque, il seme della ‘democrazia’, gettato, a Roma, nel 1849, in un tempo nel quale il solo definirsi ‘liberale’ significava appartenere al mondo della sovversione e della negazione di valori tradizionali e ortodossi, quel seme è germogliato un secolo dopo in una Costituzione che, anche nel panorama storico delle costituzioni vigenti in Occidente è senza alcun dubbio, tra le più dirette ed esplicite nella rivendicazione e nella difesa di valori democratici” (L. Villari).
Il raffronto più prossimo, che i costituenti del 1946-47 avevano con altre esperienze costituzionali del Novecento, è stata la Costituzione della Repubblica di Weimar, vale a dire la Costituzione di una Germania che, in conseguenza della disfatta subita nella prima guerra mondiale, da Impero aggressivo ed autoritaristico era tuttavia divenuta, nonostante l’inflazione dei primi anni Venti, una repubblica aperta alle forme più articolate – allora praticabili – di una moderna democrazia. Ma tale repubblica, sorta nella città di J.W. Goethe, a Weimar, resistette quindici anni, per crollare sotto le sferzate del nazismo hitleriano.
La nostra repubblica, per contro, malgrado instabilità, crisi politiche e incertezze giuridiche, restò nondimeno solida nelle sue strutture istituzionali, in virtù di una Costituzione che venne concepita anche, e tanto più, per l’Italia dell’avvenire e non solamente per risolvere i problemi che il fascismo aveva lasciato e per erigere uno Stato nascente su nuovi valori, in una proiezione europea. E l’Italia dell’avvenire è rilevabile osservando lo spirito che alimenta il testo costituzionale e leggendo, ad es., gli articoli inerenti ai “Rapporti etico-sociali” e ai “Rapporti economici”, che hanno gettato le basi di una società libera e democratica.
Nel 2006, gli Amici della Domenica decisero di operare una scelta singolare. Essi, ogni anno, attribuiscono un premio letterario, il Premio Strega, al miglior romanzo dell’anno. In quell’occasione, assegnarono un premio straordinario proprio alla Costituzione della Repubblica Italiana, ossia ad un testo, peraltro, risalente a sessant’anni prima, che romanzo non è e che C.A. Ciampi ebbe a battezzare “Bibbia laica”. Ed infatti, il conferimento di un premio letterario ad un testo di legge rappresenta una circostanza originale, ma non si rivelò una bizzarria, tenuto conto della particolare qualità del premio, nonché delle qualità del testo, che sono non meno particolari, anzi, totalmente inusitate nella legislazione italiana.
“A decenni di distanza appare sempre più nitido quell’alto valore linguistico della Costituzione italiana, un valore in cui si fece e ancora si fa concreto, percepibile, attivo, lo spirito democratico che ispira e sorregge le norme” (T. De Mauro). Forse, nessun testo normativo e pochi testi politici importanti hanno dispiegato tanta potenza, quanto la nostra Costituzione, da spazzar via “una nebbia sì folta e un muro sì grosso” tra “il palazzo e la piazza”, come si esprimeva F. Guicciardini. Le parole contenute nella Carta Costituzionale del 1948 sono parole di e per tutti, in quanto preclara manifestazione di quel percorso vichiano che dalle sacrali lingue dei soli potenti conduce verso “la Lingua Umana per voci convenute da’ popoli, della quale sono assoluti signori i popoli, propria delle Repubbliche popolari … ; perché i popoli dieno i sensi alle leggi, a’ quali debbano stare con la plebe anco i Nobili” (G.B. Vico).