2° parte
Nella 1° parte ho descritto la capacità di mentalizzazione come “la capacità di ascolto dei propri stati interni (sensoriali ed emotivi) e la loro elaborazione (cioè traduzione in un pensiero che li contenga, ne colga il senso e dia loro un nome); nonché la conseguente capacità di capire gli stati mentali degli altri”.
Ho spiegato che, al pari delle funzioni linguistiche, tale funzione è potenzialmente innata ma per funzionare bene ha bisogno di essere attivata ed “allenata” grazie all’interazione con i caregivers a partire dalla primissima infanzia.
Se ciò non dovesse avvenire nella maniera ottimale, da adulti si avranno dei deficit nell’utilizzo di tale funzione mentale con conseguenze psicologiche nella relazione con se stessi e con gli altri e con la possibilità di sviluppare diversi sintomi psicopatologici. Questi emergerebbero dal fatto che chi ha un deficit di mentalizzazione avrà difficoltà nella capacità di utilizzare il pensiero e la mente come un apparato per contenere, capire ed elaborare gli stati mentali propri e altrui.
Facciamo un esempio: Se non so capire con chiarezza ciò che sento, non saprò nemmeno capire con chiarezza ciò di cui avrò bisogno per stare bene e mi sarà pertanto difficile dare una risposta appropriata ai miei bisogni. Questi ultimi resteranno inappagati e frustrati e continueranno a “spingere” per una loro soddisfazione, che continuerà a non avvenire, con aumento notevole di tensione ed ansia. Sentirsi tristi è diverso da sentirsi vuoti, sono due stati emotivi che richiedono risposte diverse.
Se mi sento nervoso ma non riesco a comprendere cosa mi inquieta non saprò dare pace alla mia agitazione e cercherò allora dei modi per “stordirmi” e “calmarmi”. Modi che potranno diventare psicopatologie come usare droghe, il sesso, lo shopping, lo sport e tutta una serie di comportamenti compulsivi per placare uno stato psichico che non si placherà in questo modo se non temporaneamente; poiché i bisogni sottostanti non individuati continueranno a “spingere” per avere una risposta adeguata.
Ciò che invece sentirà la persona che non riesce ad individuarli è un aumento notevole dell’angoscia, a cui si è abituato a dare risposte automatiche, come (ma non solo) quelle del tipo sopra descritto. Per un po’ ci sarà sollievo e poi di nuovo la giostra riprenderà lo stesso giro. La psicoterapia può fare molto in questi casi perché si pone l’obiettivo di aiutare la persona a comprendere meglio i suoi bisogni e desideri e a comprendere meglio come funziona la sua mente e come interviene – spesso usando soluzioni patologiche che poi diventano esse stesse il problema – per far abbassare il livello di ansia.
E proprio dare un nome a quell’angoscia e definirla come, per esempio, “angoscia da solitudine”, mi aiuterà a capire che in quei momenti ho bisogno di affetto e di strare con persone che amo e non da solo, come invece magari tendo a fare in questi momenti, il che aumenta la mia ansia più che abbassarla. Capire che invece, all’opposto, la mia angoscia è data dal fatto che mi sento “troppo in relazione” ed è un tipo di “angoscia da soffocamento”, mi aiuterà a dire a chi mi ama, senza vergogna, che ho bisogno di ristabilire un contatto con me stesso stando da solo più che in relazione.
Poi il capire perché si provi questo tipo di angosce (o altre), cosa vi sia “dietro” e come gestirle lo si può imparare in psicoterapia.
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