I disturbi del comportamento alimentare: la bulimia nervosa
a cura del Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta
La bulimia nervosa si caratterizza per ricorrenti episodi impulsivi di “abbuffate” di cibo seguiti da intensi sensi di colpa e vergogna che portano a modalità inappropriate (“le condotte compensatorie”) per espellere il cibo ingerito: vomito, uso di diuretici e lassativi, intensa attività fisica. Le condotte compensatorie si trovano anche nell’anoressia, ma non sono giudicate fondanti per la diagnosi. È bene sottolineare che la bulimia nervosa è situata in stretta relazione con l’anoressia nervosa, a tal punto che vengono spesso considerate come due poli opposti di un continuum, le due facce della stessa medaglia. In entrambe infatti sono presenti un’alterata percezione del peso e delle forme del corpo ed un’intensa paura di ingrassare ed almeno il 40-50% di chi presenta uno dei due disturbi alimentari presenta anche l’altro.
Per quanto concerne la comprensione psicodinamica del disturbo, essa, come sempre, deve essere individualizzata: la bulimia si può presentare in pazienti con strutture di personalità e storie di vita (passate ed attuali) molto diverse tra loro.
Per trattare terapeuticamente questo disturbo in una specifica persona, è necessario comprendere la funzione che questo sintomo ha all’interno del funzionamento mentale di quella persona, nonché i fattori che in quella specifica persona attualmente lo mantengono. Diversi clinici ad orientamento psicodinamico che si occupano di ricerca e trattamento della bulimia nervosa pongono la loro attenzione sull’ossessività del pensiero: questo nei bulimici è centrato sulla tematica del cibo e del corpo e agirebbe da meccanismo di difesa, spostando l’attenzione della persona sul cibo e il corpo, canalizzando così su questi elementi tutta una serie di angosce (più o meno inconsce), spesso (ma non solo) attivate da emozioni dolorose (rabbia, tristezza, senso di vuoto, disgusto di sé, vergogna, etc.) o da sensazioni e percezioni “non mentalizzabili”. In questo modo si impedirebbe alla mente di essere occupata da stati mentali al momento “non gestibili e contenibili”.
In questo vi è un’evidente analogia con ciò che accade nelle dipendenze psicologiche di livello patologico, qualunque sia l’oggetto della dipendenza: tutto può diventare infatti “droga”, poiché non è l’oggetto dell’ossessione in sé che conta, ma la funzione che esso svolge all’interno dell’equilibrio psichico individuale. L’abbuffata può avere inizio allora come tentativo di “tenere a bada” spiacevoli sensazioni/percezioni/emozioni/ricordi che attivano uno stato acuto d’ansia, placato poi usando l’effetto lenitivo e consolatore del cibo.
L’abbuffata però diventa con il tempo un’abitudine, uno schema comportamentale a cui ricorrere per auto-tranquillizzarsi: lo stomaco “riempito” contrasta psicologicamente il senso interno di vuoto, mentre a livello neurofisiologico, proprio i cibi solitamente più ricercati nelle abbuffate, permettono il rilascio da parte del cervello di endorfine, che calmano ed al contempo euforizzano. L’effetto anti-ansia di ciò però rinforza lo schema comportamentale di usare il cibo come fosse un farmaco e porta così al suo possibile automatizzarsi nel tempo. In psicoterapia, oltre a capire il senso del disturbo nella propria economia mentale, si apprendono nuovi modi, meno disfunzionali e disadattativi, di gestire il dolore o l’angoscia, senza ricorrere alla propria ossessione personale.
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