Dario Rossi racconta la sua Cerveteri, un territorio affascinante quanto misterioso.
«Nella stanzetta adibita a laboratorio, sopra un lungo tavolo dalla superficie marmorea giacevano, coricati, quattro graziosissimi reperti in ceramica etrusca: una “oinochoe” in bucchero, un “alabastron” e due “ariballos” etrusco-corinzi, databili alla prima metà del VII° secolo a.C. Ritrovati sotto pochi centimetri di terra in una tomba a fossa dai volontari del NAAC (Nucleo Archeologico Antica Caere) nel mese di agosto del 2004 durante l’intervento di pulizia e recupero del tratto iniziale di via degli Inferi, con ogni probabilità erano sfuggiti alla depredazione, eseguita in modo sommario e fugace da un precedente scavo clandestino.
Questi interessantissimi oggetti, al termine della giornata lavorativa dei volontari del NAAC, erano stati consegnati al restauratore capo della necropoli Ennio Tirabassi, per essere riportati all’antico splendore. Deposti quale corredo in quella tomba a fossa, fioriti, ora, di incrostazioni calcaree e vestiti di mota, giacevano come addormentati, sopra il lungo tavolo dalla superficie marmorea del laboratorio: sembravano non svegliarsi, ancora, dal loro lunghissimo sonno – di quasi tremila anni – dal quale erano stati avvinti mentre il siggillo di chiusura spegneva, definitivamente, la luce accecante di quel giorno d’agosto ebbro di cicale, e il sonno e il silenzio iniziavano a calcare delicatamente la scena dell’eterno, profondo oblìo…
Da poco avevo saputo del fortunato ritrovamento dei quattro reperti, e che questi giacevano nella piccola stanza dove si lavoravano reperti antichi. Incuriosito da tale notizia decisi di andare a trovare il mio amico Ennio, per vederlo all’opera. Salita la stretta scalinata che conduceva al laboratorio, bussai alla porta: la voce di Ennio m’invitò ad entrare. Seduto presso il lungo tavolo dalla superficie marmorea, avvolto nel suo camice bianco, il volto semi-coperto da una mascherina dove soltanto gli occhi (sotto la fronte corrugata) grandi e indagatori erano la sola parte vivente, con un bisturi tagliente stretto nella mano stava togliendo, esternamanete, il fiorire di calcare che ricopriva uno dei due aribballoi ritrovati dal NAAC:- Ciao Ennio – lo salutai – sembri un professore che sta operando il paziente – dissi, abbracciandolo. Sorrise dai suoi grandi occhi, rispondendo: – caro Dario: ma io sono un professore! Sono il professore che opera sui reperti antichi. Su vieni siediti accanto a me – seguitò – ti farò vedere come si agisce sopra un reperto in ceramica che ha circa tremila anni. Osserva: ho quasi terminato di togliere il fiorire del calcare che stringe questo oggetto, quindi con un esile bastoncino di ferro, leverò la massa terrosa di cui è pino all’interno …Perbacco, la terra si è così indurita che il reperto pesa come un uovo di piombo.
Detto fatto, infilò delicatamente l’esile bastoncino di ferro nel piccolo, tondo foro d’uscita del liquido posto al di sopra del collo dell’ariballos, iniziando a rovistare: un pastoso, durissimo brano di terra iniziò a scendere, dal reperto capovolto, sulla mano di Ennio per finire, poi, sul tavolo. Il restauratore spinse più a fondo l’esile bastoncino di ferro. E qui accadde l’inverosimile!
All’improvviso, un acuto profumo di rose si sprigionò dall’interno dell’ariballos fino ad invadere velocemente la stanzetta del laboratorio; era così forte e penetrante che io ed Ennio iniziammo a lacrimare. Il restauratore si tolse dal viso la mascherina adagiando il reperto sul tavolo. Vidi, allora, nei suoi occhi grandi e indagatori un non so che di sbalordimento misto a sensazioni indefinite di gioia e commozione. Io, non sapevo cosa dire.
Per circa un minuto, il restauratore stette in silenzio, poi: – vedi Dario – disse – è la prima volta che nella mia carriera in cui ho assisitito a questo strano miracolo…Adesso ti spiego: “l’aribalos era colmo di liquido profumato quando è stato adagiato, quale corredo, nell atomba a fossa dove sicuramente era stat sepolta una fanciulla etrusca. Il liquido chiuso all’interno, in tutti questi secoli non si è disciolto: probabilemnte un tappo di terriccio ha chiuso il foro d’uscita; così con il lento trascorrere del tempo, la massa liquida nel reperto si è solidificata, lasciando che il profumo all’interno rimanesse vivo. Ed è ritornato alla vita dopo quasi tremila anni…” Sospirò profondamnete guardando turbato il piccolo, panciuto ariballos stretto nella sua mano. Poi, sorridendomi con quei suoi occhi grandi e indagatori, dissi: – spero che nell’altro ariballos ciò non succeda! Non lo potrei sopportare!
Lasciando Ennio, nello scendere della stretta scalinata ero così emozionato che dovetti sedermi sopra uno dei gradini. Le foglie di un grande olmo addossato al laboratorio erano ferme e silenziose. Una coppia di tortore vi si nascose, tubando».