Quando veniamo al mondo, nasciamo in un contesto familiare carico di aspettative nei nostri confronti. Ciò lo si comprende bene se si indaga circa la scelta del nome che ci viene dato: in un precedente articolo pubblicato su questa rivista, che intitolai “nomen omen”, descrivevo il significato psicologico che ha la scelta del nome che ci viene dato, come già i latini compresero molti secoli fa.
La loro celebre espressione, “nomen omen”, significa appunto “il nome è destino”. Ancor prima del nome che ci viene dato e che ci condizionerà per tutta la crescita futura per via delle aspettative che vi sono intrinsecamente date, c’è il condizionamento psicologico che i genitori hanno quando sanno che sesso avrò il nascituro.
L’idea di cosa è un uomo o una donna nella testa dei genitori li porterà a porsi con il figlio/a, fin dai primi istanti della loro relazione (e anche prima che si possano guardare per la prima volta negli occhi invero), in un modo congruo con quelle che sono le loro convinzioni inconsce sul genere e ciò guiderà i loro comportamenti, il loro sentire e il loro pensare la relazione con il figlio/a – ecco, voglio condividere una cosa con voi lettori che ho colto ora, sul momento, mentre sto scrivendo e che illumina, credo, sui modi in cui siamo inconsciamente condizionati dalla cultura di appartenenza (che è proprio il tema che voglio affrontare in questo articolo): nello scrivere mi viene di usare (come sopra ho fatto) “figlio/a” e non invece, come anche potrei e avrei potuto fare, il contrario, ovvero “figlia/o”.
Non so che ne pensiate, ma io che sono abituato nel mio lavoro a fare attenzione anche al modo in cui usiamo il linguaggio e a come nel linguaggio si esprimano contenuti inconsci della nostra mente, non posso non pensare che ciò sia frutto del mio appartenere ad una cultura che mette prima il maschile e poi il femminile: della qual cosa abbiamo in effetti dimostrazione in vari ambiti: per esempio nel diverso trattamento lavorativo tra uomini e donne, della diversa retribuzione economica per gli stessi incarichi lavorativi, etc, etc. -.
Ecco, mi sembrava avere un potente effetto far vedere, “in vivo”, nell’immediatezza della scrittura, come siamo tutti intrinsecamente condizionati dai valori della cultura di appartenenza, in modi che spesso sfuggono alla nostra consapevolezza.
Ma tornando all’articolo: i genitori inconsciamente o meno proiettano sui figli le loro aspettative, speranze e credenze sul mondo. E i figli – per tutto il periodo dello sviluppo, fino all’adolescenza almeno – ci si identificano e strutturano la loro personalità nascente tenendo conto anche di questo, perché l’approvazione dei genitori è tra le cose più importanti che desidera un bambino. Inoltre nel bambino sono innatamente attivi tutti i processi di apprendimento per imitazione, il che comporta un assomigliare ai genitori nei comportamenti, nei valori in cui credono e persino nella postura, a prescindere dall’intenzionalità di volerlo farlo o meno.
E così tutti noi siamo, che ci piaccia o meno, il prodotto di una cultura o sottocultura con tutto il suo carico di aspettative e condizionamenti, dai quali dovremo però un giorno, da adolescenti/adulti, prendere le distanze se vorremo essere persone libere e leggere, potendo scegliere ciò che riteniamo valido di ciò che ci è stato insegnato e ciò da cui invece ci vogliamo differenziare.
Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta Psicoterapie individuali, di coppia e familiari
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