Il nostro Stato democratico di diritto è davvero di tutti?

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Riconferire senso e valore alla funzione di sindaco

di Antonio Calicchio

Individuare i candidati alla carica di sindaco nelle grandi città, in vista delle prossime elezioni, rappresenta una delle questioni che occupano, in maniera impellente, tutti i partiti, in questo momento politico. Sebbene di ciò si discuta da mesi, tuttavia è solo nelle ultime settimane che il problema è divenuto prioritario, tanto più perché l’impresa sta risultando assai più complicata di quanto fosse ragionevole prevedere, anche a causa delle difficoltà legate alle alleanze, in atto o da realizzare. Rispetto a numerose autocandidature, in ordine sparso, ha sollevato non pochi dibattiti quel rifiuto formulato da parte di talune personalità alle ripetute offerte dei partiti. E si è iniziato a discutere di crisi della figura istituzionale di sindaco, soprattutto nei grandi centri urbani. Trattasi di un processo connesso a quello più generale della formazione di una nuova classe dirigente, nonché dello scarso radicamento sociale dei partiti. Riduzioni alle risorse e disavanzi da amministrare; eccesso di obblighi burocratici e incremento del “rischio giudiziale”; compensi inadeguati in confronto ai ruoli ed alle responsabilità: sono queste le motivazioni fondamentali che rendono sempre meno attraente il compito di sindaco, almeno secondo le dichiarazioni rese dai diretti interessati, in carica o meno. Ma vi è di più! Quando, con la legge n. 81, del 25.3.1993, si introdusse, nell’ordinamento, l’elezione diretta del sindaco, questa riforma si situava al centro dei grandi cambiamenti intrapresi in forza del referendum in merito alla preferenza unica, nel 1991. E poco dopo l’entrata in vigore della legge, il 18 aprile 1993, si sarebbero tenuti dei referendum, fra cui quello sul senato che avrebbe previsto l’adozione di un sistema elettorale prevalentemente maggioritario. In concomitanza all’elezione diretta, si aprì quella “stagione dei sindaci” che costituì un tentativo di risposta al disfacimento del sistema partitico prodotto da tangentopoli. Ma il tentativo, quantunque pregno di aspettative, tuttavia non riuscì a contenere lo scollamento fra ceto politico e cittadini, e la dinamica di personalizzazione della competizione elettorale, sollecitata dalla riforma, determinò risultati contraddittori. Comunque, giova sottolineare, al riguardo, che, nel 1999, vide la luce l’elezione diretta dei presidenti delle regioni. Consolidata, nel 2001, a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, con una estensione dei poteri delle regioni, pure in ambito legislativo. I presidenti delle regioni divennero “governatori”, prima che i problemi scaturiti dalla pandemia mostrassero le lacune e le antinomie di quella riforma incompleta ed incoerente. Ciononostante, le parole sono rivelatrici e – sinora – non è stato ancora focalizzato il rapporto tra ipertrofia politica e linguistica dei presidenti regionali ed il costante crollo della figura dei sindaci. Non è sicuro che la Nazione abbia guadagnato nello scambio e nessuno può realisticamente pensare che si possa fare marcia indietro. Ma rivalutare e rispettare maggiormente il livello istituzionale più prossimo ai cittadini, appare – ormai – una esigenza del tutto improcrastinabile.