IL RACCONTO DEL MIRACOLOSO RITROVAMENTO DELLA STATUETTA “PERDUTA”.
di Angelo Alfani
Un continuo rimbombar di lampi e tuoni squarciò un cielo plumbeo. Seguì un acquazzone, interrotto a tratti da fragorosi “sgrulloni” di goccioloni grossi come ostie sconsacrate che picchiarono duro sui sampietrini. Il diluviare occupò l’intera notte, cessando allorquando la prima corriera partiva per la Capitale. «Marescia’ che annate giranno a quest’ora!» chiese Agustarello, rivolto a Saporito che, accompagnato da Peppone il brigadiere, aspettava il consueto caffè ristretto. «Controlli di routine per le campagne» rispose laconico: non voleva si sapesse che Angelino si era raccomandato «de annallo a trova’ prima de subbito».
Il terreno di Angelino era una ripida spalletta, uno “scapicollo” a dire il vero, che dalla Tomba delle Cinque sedie precipitava nel fosso del Marmo.
La gran quantità d’acqua aveva “sgarufato“ quel rubbio di terra, lasciando intorno agli olivi cospicuo pietrame. La campagnola dei carabinieri svoltò verso Gricciano, fermandosi nella carrareccia appresso alla Tomba. I due tutori dell’ordine, infangandosi fino alle ginocchia, raggiunsero Angelino che, piantato su una vanga, accennò un saluto.
Nel carraccio più profondo e largo del terreno, luccicava al sole, appena rinvenuto tra le nuvole, ‘na capoccietta de coccio: capelli castani tagliati a zazzera, divisi al vertice mediante un cocuzzolo, un nasone piantato in mezzo a due occhi abbottati. Una statuetta alta appena mezzo metro, con la veste color giallo ed un mantello rosso scuro, dagli ampi bordi color rosso carminio; la mano destra protesa, offerente.
Il maresciallo non ebbe dubbio alcuno: si trattava di una delle statuette della Tomba delle Cinque sedie. Si ricordò quanto aveva scritto Wolfgang Helbig nel Bullettino di corrispondenza archeologica del 1866: «Può rallegrarsi il mondo dotto, che le antichità ceretane trovate negli ultimi scavi dei signori Calabresi siano divenute proprietà del sig. Augusto Castellani che ne permette lo studio a chiunque vi si interessa. In una tomba divisa in più compartimenti si trovavano assise su sedie lavorate nel tufo alcune statuette di terracotta. Oltre alle tre statuine conservate, le altre erano talmente frammentate che non si credette neppure di raccogliere gli avanzi».
Ed anche la più precisa versione che ne aveva dato il prof. Giglioli: «Le tre statuine fittili furono trovate tra il 4 ed il 15 Maggio del 1865 negli scavi fatti col regolare permesso del Governo pontificio dal proprietario principe Giovanni Ruspoli e dal suo affittuario Paolo Calabresi. Il Commissario delle Antichità, Pietro Ercole Visconti, propose che il Governo ne acquistasse due per il Museo Gregoriano in Vaticano, ma la proposta fu lasciata cadere per il giudizio del Direttore generale Luigi Grifi, pur ottima e colta persona, del quale non sappiamo se, dal nostro punto di vista, sia maggiore la pietà per la sua incomprensione o l’interesse per il cambiamento del gusto o infine il diletto per la sua involontaria comicità. Così le statuette furono acquistate da Augusto Castellani, insigne orafo e all’occasione avveduto mercante di antichità, che finì col donarne una al Comune di Roma (esposta subito nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio) nel 1867 e col vendere le altre due, che entrarono nel 1873 nel British Museum di Londra».
Nessuna delle versioni ufficiali però aveva persuaso Saporito: cinque le sedie, tre le statuette. Il conto non tornava. Si chinò e prese la statuina tra le mani, sgrossandola dal fango che gli si era appiccicato addosso. Come era possibile che la statuetta si trovasse sotterrata ad alcune decine di metri dalla Tomba? Cosa poteva essere accaduto in quel maggio del 1865? La conclusione a cui pervenne il maresciallo fu la seguente: delle cinque statuette tre furono lasciate trovare a Calabresi, una era finita in cento pezzi sotto i colpi maldestri di un piccone, quella ritrovata da Angelino era stata sicuramente nascosta da un operaio tra la terra dello scavo, e trafugata durante la notte. Al buio, inciampando e “smadonnando”, l’operaio aveva scavato una buca nel campo vicino sotterrandocela, certo di riprendersela a scavi ultimati. Passarono settimane e, simile ad una spinosa impazzita, notte dopo notte riempì di buche lo scapicollo, senza riuscire a rintracciare il “tesoretto”. Allo sconforto fece seguito l’abbandono di ogni ricerca.
A distanza di 90 anni il dissodamento del terreno, le piogge torrenziali avevano fatto rinvenire la solitaria statuetta. «Nun ve dovevo dì niente?» chiese un preoccupatissimo Angelino. «Forse era meglio. Ma non è sempre facile sapere quello che si deve o non si deve fare in questo paese» rispose il maresciallo. Si allontanò confabulando col brigadiere. Giunto alla camionetta cercò di togliere il fango dagli scarponi strusciandoli sul filo spinato della recinzione. «Che famo marescia’? Se si fa la denuncia sto poraccio ha finito de campà» disse il brigadiere.
Il mare, lamina dorata, sembrava lievitare, ingigantito dal “nuvolame” appiccicato sopra ai monti, mentre la campagnola discendeva al paese. Alcuni giorni dopo un camioncino sostò pochi minuti al Campo della Fiera. Una minuscola bara di legno traslocò dall’ape di Angelino nel cassone. Il telone si richiuse, e lentamente, come un corteo funebre, il camioncino ridiscese verso l’Aurelia. Raggiunse in poche ore il porto di Napoli.
La bara venne inghiottita nel portellone del transatlantico Andrea Doria. Ad attenderla, quarantadue giorni dopo a Nuova York, uno dei più accreditati commercianti di opere antiche.