Va detto anzitutto che la dipendenza affettiva è un aspetto sano delle relazioni umane e noi esseri umani ne abbiamo bisogno “dalla culla alla tomba” (John Bowlby). Per capire il Disturbo di Personalità Dipendente dobbiamo immaginarci la dipendenza affettiva come una qualità umana che si dispiega lungo un continuum che va dal completo distacco (tipico dei Disturbi schizoidi di personalità) alla completa fusione patologica. Lungo l’ipotetica scala di questa dimensione dell’esperienza umana ognuno di noi trova la sua collocazione e costruisce e gestisce i suoi rapporti affettivi, nel modo che gli è proprio e che ha appreso nell’infanzia in relazione alle esperienze emotive avute in famiglia. Le personalità dipendenti si caratterizzano per una necessità eccessiva di essere accudite, il che le porta ad avere un comportamento sottomesso, dipendente e richiedente; a non contraddire gli altri da cui dipendono e a fare in modo di non restare da sole (che è una delle cose che temono di più). Tale comportamento è finalizzato a suscitare protezione e nasce da una percezione di sé come incapace di funzionare adeguatamente senza l’aiuto di altri. Il delegare ad altri le responsabilità delle loro più banali scelte quotidiane crea però un circolo vizioso che perpetua la dipendenza ed il senso di inettitudine poiché, non mettendosi alla prova, non possono acquisire un senso di capacità. Gli adulti con questo disturbo tipicamente dipendono da un genitore o dal coniuge per decidere dove devono vivere, che tipo di lavoro dovrebbero avere, di quali vicini devono essere amici, etc. Gli adolescenti che vanno strutturando questo disturbo possono permettere ai genitori di decidere cosa dovrebbero indossare, chi frequentare, come dovrebbero trascorrere il tempo libero, etc. Questa necessità che gli altri si assumano le responsabilità va al di là delle richieste appropriate per l’età e la situazione. È questo un punto centrale nella definizione e comprensione di questo disturbo ed è legato alla convinzione patologica inconscia che acquisire un’autonomia personale conduca all’abbandono. Convinzione costruita nel rapporto infantile con i genitori che non sono riusciti a mostrare ammirazione per le conquiste evolutive del figlio o che non sono riusciti ad incentivarle, con il loro stile educativo eccessivamente iperprotettivo e/o autoritario, che si sostituiva al figlio nella risoluzione delle sfide quotidiane. Dall’altra parte il bambino ha sentito che fare scelte autonome significava perdere l’approvazione genitoriale o far sentire inutili dei genitori molto dipendenti da lui. Così per proteggerli e per proteggersi dal sentirsi “cattivo” ha rinunciato all’autonomia. Si coglie bene, da quanto detto, la bi-direzionalità di come si costruiscono queste personalità: non c’è un colpevole, ma uno stile familiare, una serie di messaggi non verbali e non esplicitati, ed un modo di stare al mondo e vivere i rapporti umani in cui tutti i componenti della famiglia sono coinvolti. Con questi pazienti il processo terapeutico si pone l’obiettivo, attraverso l’esperienza della relazione terapeutica stessa, di far loro acquisire una maggiore fiducia nelle proprie competenze, di fargli conquistare livelli migliori di autonomia personale e di confutare parallelamente e implicitamente le inconsce convinzioni patogene che gli altri siano forti e capaci e loro inadeguati.
Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta
Psicoterapie individuali, di coppia e familiari
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