Maggie Gyllenhaal, per la prima volta dietro la macchina da presa, porta sul grande schermo il romanzo di Elena Ferrante “La figlia Oscura”. La produzione indipendente, a cui ha partecipato la stessa regista e sceneggiatrice, è arrivata in sala proprio in questi giorni dopo l’ennesimo rinvio.
di Barbara Civinini
Oriana Fallaci sosteneva, molto saggiamente, che “essere mamma non è un mestiere; non è nemmeno un dovere: è solo un diritto tra tanti diritti”. Oggi la bella interprete di Secretary, Maggie Gyllenhaal, per la prima volta dietro la macchina da presa, s’interroga sul difficile mestiere di madre. E lo fa portando sul grande schermo un romanzo dell’affermata scrittrice Elena Ferrante del 2006, “La figlia oscura”, che è divenuta un caso cinematografico, perché altri suoi romanzi sono stati portati sullo schermo: “L’amore molesto” da Mario Martone, e “I giorni dell’abbandono” da Roberto Faenza, senza considerare la popolare serie TV tratta da “L’amica geniale”, creata da Saverio Costanzo.
Il disagio interiore vissuto dalla protagonista è tutto nelle semplici parole di questa madre a metà: “Le amavo troppo e mi pareva che l’amore per loro mi impedisse di diventare me stessa”. E così lascia le figlie con il padre per inseguire la sua carriera universitaria. Leda – interpretata dalla premio Oscar Olivia Colman – soffre il peso della sua scelta e una vacanza da sola al mare, in Grecia, diventa occasione di riflessione esistenziale. Leda, docente di letteratura italiana, rimane affascinata da una giovane madre (Dakota Johnson) e dalla sua figlioletta mentre le osserva sulla spiaggia. Turbata dal loro irresistibile rapporto, e dalla loro chiassosa e minacciosa famiglia allargata, è sopraffatta dai suoi ricordi personali, dai sentimenti di terrore, confusione e intensità provati nelle prime fasi della maternità. Un gesto impulsivo la sconvolge e la proietta nello strano mondo della sua mente, dove è costretta ad affrontare le scelte non convenzionali che ha compiuto quando era una giovane madre e le loro conseguenze.
Il tema è sicuramente molto delicato, anche perché pioniera statunitense della contraccezione: “Nessuna donna può definirsi libera se non possiede e controlla il proprio corpo. Nessuna donna può definirsi libera fino a che non sceglie coscientemente se vuole oppure no essere una madre”. Un tema questo considerato a lungo un tabù in una società che ha relegato la donna unicamente nel ruolo di angelo del focolare e di madre materna. Leda non ha la soluzione e, soprattutto nel romanzo, invita a riflettere: “Le cose che non riusciamo a spiegare sono quelle che noi stesse non riusciamo a capire”, dice.
Il mio film, ha dichiarato la Gyllenhaal – come riporta l’ANSA – parla una lingua inconsueta: la lingua della mente delle donne, dedicando i premi alle “donne nel cinema”. Ma il film, che ha vinto al Festival di Venezia, e agli Spirit Awards, il premio per la sceneggiatura, firmata dalla stessa regista, che ha partecipato anche alla produzione, e ha ricevuto anche tre candidature all’Oscar, non ha convinto tutta a critica.
“Il Manifesto” commenta “che gli sguardi insistiti, i non detti di possibile complicità, le allusioni non bastano a colmare, sfuggendo agli interrogativi, al conflitto di materia complessa intrappolata nella superficie”.