di Antonio Calicchio
Il compito degli intellettuali, cioè degli uomini di cultura, è quello di esercitare il proprio pensiero e la propria azione attraverso il metodo del dialogo, in vista di raggiungere quella mèta finale che è la costituzione della “civitas maxima”. E gli obblighi dell’uomo di cultura possono essere riassunti in tre massime:
occorre capire prima di giudicare; per capire occorre sempre mantenere un certo distacco critico di fronte agli eventi; e per mantenere un certo distacco critico di fronte agli eventi, occorre non lasciarsi dominare dalle passioni di parte, essere sempre disposti a riconoscere le ragioni altrui.
Nel seguire queste massime, si comprende che la storia è imprevedibile; è imprevedibile perché non procede su una linea continua, ma attraversa momenti di ascesa e di decadenza, le cui ragioni ci sono ignote; proprio perché il corso storico è imprevedibile e nulla è tanto vecchio da non poter diventare nuovo e nulla è tanto nuovo da non poter ridiventare vecchio, utopia e realismo non si escludono a vicenda.
Ed allora: come affrontare il tema del concetto di legalità, tra cultura e società contemporanea? Nella maniera appena segnalata: capire prima di giudicare, distacco critico, guardare la questione da tutti i lati.
Mai, come oggi, il dibattito circa l’origine dello Stato si rivela così vivo ed aperto; mai, come oggi, invece, è certo che ogni Stato si prefigge di perseguire determinate finalità sociali, la cui realizzazione è affidata sia ad individui, che ad organi (come Parlamenti, ministeri, prefettura, polizia, ecc.) che agiscono in nome dello Stato e che sono investiti di “potestas imperii”, ossia di “potestà di comando”; i loro ordini devono essere obbediti in quanto fondati su precise norme giuridiche, le quali risultano essenziali ai fini della nascita e dell’esistenza stessa dello Stato, tanto che diritto e società politicamente organizzata sorgono contemporaneamente, sono coevi, e la società non vive senza il diritto: “ubi societas ibi ius”.
Il diritto, quindi, rappresenta la condictio sine qua non della civile convivenza comune e della vita dello Stato. Ma “che cos’è il diritto?” e “qual è la funzione del diritto?”.
Il diritto è un insieme di norme che regolano l’attività pratica di una collettività umana, la cui funzione è quella del perseguimento di scopi comuni: per questo, il diritto è disciplina e fondamento di una organizzazione, vale a dire di una organizzazione di una società umana. E la società vive, esiste e trova la propria unità e il modo per realizzare i propri scopi unicamente mediante il diritto. Il diritto costituisce uno dei più potenti elementi di coesione umana, in virtù della solidarietà che instaura tra coloro che vivono secondo una legge comune.
Ma il diritto è da considerare anche in relazione al potere. Diritto e potere sono due facce della stessa medaglia. Una società ben ordinata ha bisogno di entrambi. Laddove il diritto è impotente la società rischia l’anarchia; laddove il potere non è controllato, rischia il dispotismo. Il modello ideale dell’incontro fra diritto e potere è lo Stato democratico di diritto. Ciò significa che il diritto ha bisogno del potere per diventare effettivo e il potere ha bisogno del diritto per diventare legittimo. Sosteneva Pascal che “il diritto senza potere è inerme, il potere senza diritto è tirannico”. Potere e
legittimità si rincorrono. Il potere diventa legittimo attraverso il diritto, mentre il diritto diventa effettivo attraverso il potere. Quando l’uno e l’altro si separano, ci troviamo di fronte ai due estremi: del diritto impotente e del potere arbitrario.
Tuttavia, ogni discorso sulla giustizia, sul diritto, sulla legge e sulla legalità, ma anche sulla sicurezza, ha un significato compiuto sol che sia collegato al contesto, sociale, storico ed istituzionale in cui si situa.
Muovendo, dunque, dalle questioni di contesto, dobbiamo essere consapevoli, quando parliamo di questo argomento, che agiamo in uno scenario complesso, che è tale perché è, di per sé, complicata la situazione in cui ci troviamo. Per effetto della complessità non solo dello scenario interno, ma anche di quello internazionale.
Pertanto, è in questo quadro che dobbiamo interrogarci, oggi, sul senso della legalità e della sicurezza, intesi non solamente come modello ideale di valori e di fini da promuovere e da salvaguardare, ma anche come modus operandi, come grado di effettiva attuazione di quel modello.
Ed infatti, se dovessimo ragionare soltanto in termini ideali ed astratti, allora la risposta all’interrogativo si risolverebbe in un mero giudizio di corrispondenza del nostro apparato normativo ai fondamenti dello Stato di diritto, fondamenti centrati su due principi: quello del primato della legge e quello della separazione dei poteri, come sosteneva Montesquieu.
Quando, però, la riflessione si trasferisce sul piano della interiorizzazione di norme e di valori, da parte della comunità civile, allora entriamo nel pieno del tema della legalità, considerata non come principio formale, ma come espressione concreta e fattore di sviluppo culturale.
Di qui l’emergere della necessità di un approccio a questo tema, che ne sappia cogliere alcuni aspetti fondamentali. In primo luogo, la questione del rispetto della regola e il senso del valore della regola. Se non si recupera la regola come valore, allora non si recupera il senso del principio di legalità. Ed è, innanzitutto, compito dello Stato trasmettere l’idea che la legalità, cioè il rispetto delle regole democraticamente poste, è un valore su cui poggia il nostro assetto istituzionale.
Il secondo aspetto, è quello della partecipazione. Partecipazione che non è semplicemente un principio di informazione, ma è il modo attraverso il quale noi cittadini diventiamo co-autori della regola, coprotagonisti della vicenda e corresponsabili nella cittadinanza sociale.
L’ulteriore contenuto che dà corpo alla legalità è il principio del controllo democratico.
Noi non abbiamo bisogno di legalità soltanto formale, ovverosia di quella legalità che ci dice che un’azione è conforme alla normativa astratta e generale prevista dalla legge. No! Noi abbiamo bisogno di una legalità anche sostanziale, cioè di una cultura della legalità, la quale implica un “processo della legalità”, che va portato avanti quotidianamente, frutto della capacità di raccogliere risultati attraverso l’applicazione di una legge che viene dalla partecipazione di ciascuno, e di cui ciascuno si assume la responsabilità dell’attuazione.
Anche l’azione di controllo dello Stato sull’osservanza del principio di legalità deve cambiare, passando da una azione di verifica del rispetto formale delle regole, ad un sistema di controllo collaborativo dell’attuazione dei diritti di cittadinanza sociale e di libertà economica.
La cultura in generale, e la cultura della legalità in particolare, quindi, centrale nelle vicende storiche, esistenziali e morali di un popolo, deve essere anche praticata e concretizzata, e non solo enunciata sul piano accademico: occorre pensare alla legalità per fare legalità, coltivando nelle coscienze il valore dell’umanesimo, della dignità e della responsabilità: una cultura della legalità, quindi, che si sostanzia in una prassi della legalità, in un habitus, in una tensione civica ad agire per il bene comune.
Oggigiorno prevale, invece, in Occidente, solo “l’utile”. Non si sa più cosa è giusto, cosa è legale, cosa è vero, cosa è buono, cosa è sacro, cosa è bello. Si è assunto come unico valore universale, cioè come generatore simbolico di tutti i valori il “denaro”. E il nichilismo, insieme alla tecnica, poi, ha aggredito la nostra epoca e la nostra civiltà.
Ma la cultura occidentale e il suo pensiero nascono in Italia, cioè a Velia (per i Romani) o Elea (per i Greci). Perché? I manuali di Storia della filosofia antica indicano come primi filosofi: Talete, Anassimandro, Anassimene, ecc., ma costoro furono dei “fisici” (physis, in greco, vuol dire “natura”). Essi furono degli “osservatori” della natura: per Talete, il principio primo è l’acqua, per Anassimandro è la materia, per Anassimene è l’aria, cioè fenomeni naturali o naturalistici. Anche Aristotele cadde in quell’equivoco di scrivere che “i primi filosofi furono fisici”. Appunto, fisici, non filosofi. Il primo vero filosofo, cioè il fondatore del pensiero filosofico occidentale fu Parmenide della scuola eleatica. Perché? A questo punto, si deve chiarire “cosa è la filosofia?”. Un saggio di Gilles Deleuze e Felix Guattari, “Qu’est-ce que la philosophie?” ci comunica, richiamandosi a Nietzsche, che la filosofia svolge una funzione creativa. E cosa crea la filosofia? La filosofia “crea” concetti (giustizia, libertà, monade, ecc.). Da ciò discende il motivo per cui Parmenide fu il primo filosofo: egli ha creato il concetto dell’ “Essere” – e del “non-essere” – su sui, ancor oggi, si dibatte. I suoi predecessori non crearono concetti, ma osservavano la natura e i suoi fenomeni. Si è arrivato a sostenere che Velia/Elea è, perfino, più importante di Roma, da questo punto di vista. Roma ha eccelso nel diritto, nell’amministrazione dello Stato, nelle strategie militari, e basta. Non esiste una “cultura” romana, se non come mimesi di quella greca (si vedano le opere di Cicerone, il quale non ha elaborato nulla di nuovo, ma ha riprodotto il pensiero greco). L’Eleatismo ha gettato le fondamenta di tutta la cultura e la civiltà del pensiero occidentale.
Per questo, bisognerebbe praticare una filosofia che non si pratica più tanto, cioè la filosofia che tenta di dare consigli per l’esistenza. I filosofi, oggi, spesso, parlano per se stessi o per i loro colleghi, fanno della filosofia, una filosofia filosofante, come i politici fanno della politica, una politica politicante, nel senso di trattare di problemi di tecnica filosofica, di tecnica politica. No!
La filosofia è un modo di pensare, quando non, perfino, di vivere, che si pone nel medio tra la scienza e la religione. Nel mondo esistono cose che si sanno e cose che non si sanno, ma che si credono. Le prime fanno parte della scienza (come l’acqua che bolle a cento gradi) e le seconde della religione (come l’Aldilà). Poi, ci sono cose che non si sanno e non si credono, come l’Essere, sui cui si discute dai tempi di Parmenide, appunto, e che costituiscono la filosofia. Diceva Averroe’, che chiunque scrive un’opera filosofica, dovrebbe scriverla almeno tre volte: una per i colleghi, una per gli allievi e una per il popolo.
Ed allora: l’Italia, culla non solo del diritto e della giustizia, ma anche del pensiero filosofico, se vuole, in quanto tale, promuovere, oggi, una autentica cultura della legalità, allora deve far sì che il suo sistema istituzionale sia in grado di dare corpo a quei diritti che sono scritti e sanciti nella Costituzione repubblicana, del 1948, e di renderne possibile il raggiungimento, da parte di chiunque.
Cittadinanza sociale da una parte, libertà dall’altra.
Lo stesso discorso vale per il tema della sicurezza, che è strettamente connesso a quello della legalità.
In questo campo, più che in altri, la dimensione del termine è influenzata dal processo di integrazione europea, nel cui ambito il concetto della sicurezza è legato ai temi della libertà e della giustizia.
E’ grazie anche a questo processo di allargamento dei confini che, ormai, da tempo, il bene-sicurezza, pure nel nostro Paese, riguarda non solo la repressione della delinquenza e la difesa dello Stato, ma anche, e sempre più spesso, la capacità di tutela di altri beni di valore sociale, come, ad es., la qualità della vita urbana, i problemi del degrado cittadino e della coesione sociale.
La sicurezza, unita ad altri fattori della vita civile e sociale della comunità, viene ad acquisire una connotazione aperta ed inclusiva, che ne attenua il significato unicamente difensivo.
Nel parafrasare il filosofo inglese Isaiah Berlin, che distingue la dimensione positiva della libertà da quella negativa, potremmo discernere l’esistenza di una sicurezza positiva i cui obiettivi non si risolvono solamente nell’abbattimento dei livelli delinquenziali, nello sconfiggere il crimine, eliminandone ogni influenza, ma implicano qualcosa d’altro.
Ecco, allora, che, come per la legalità, così il discorso in merito alla sicurezza non si traduce più nel rapporto violazione della norma/erogazione della sanzione, ma coinvolge i temi della garanzia, del rispetto e dell’espansione dei diritti elementari di libertà e giustizia.
Promuovere la cultura della legalità, così come assicurare condizioni di sicurezza, significa, oggi, intraprendere un percorso che interseca questioni di natura sociologica, economica, politica e anche etica.
Tra le questioni più urgenti, c’è, senza dubbio, quella della sicurezza economica. Senza la quale non c’è, né ci potrà mai essere, sviluppo.
Una economia affrancata dal condizionamento della criminalità organizzata, è una economia più sicura e più giusta. E’ con questa consapevolezza che l’azione di ogni Governo, centrale e periferico, deve essere sempre diretta a rafforzare i presidi di legalità.
Ma altrettanto urgente si mostra il tema della valorizzazione dei comportamenti virtuosi, non solo nel settore dell’economia, ma anche in quello delle istituzioni, politiche, scolastiche, scientifiche, culturali, sociali.
Sotto questo profilo, per quanto indispensabile appaia dotarsi di un sistema di regole ancor più incisive che arginino il fenomeno della corruzione, tuttavia il nostro Paese, vale a dire gli individui, le persone che compongono la società civile, hanno bisogno di riprendere confidenza e fiducia col sistema delle regole intese come espressione di valori condivisi. Ad una condizione, però, e cioè che si compia un rinnovato pactum unionis, come indicava Kant, tra società politica e società civile che consenta di far crescere la fiducia nel diritto e nella giustizia.
Per questo, i rappresentanti delle istituzioni, i rappresentanti del mondo della cultura, devono sentire forte la responsabilità e l’impegno perché possano svolgere una funzione cruciale per rafforzare nella cittadinanza un senso di condivisa appartenenza al sistema Paese.
I rischi di “coma etico” – già paventato da don Ciotti – in cui versa la società contemporanea, deve far auspicare, come asseriva Bobbio, l’affermarsi e il diffondersi di un’etica pubblica quale disciplina a servizio della comunità.