I GENI NON VANNO IN PARADISO

0
652
geni

«Genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri » diceva Arthur Schopenhauer.

I giganti della storia, quelli che hanno lasciato un segno, non sono quasi mai stati delle persone “per bene” né allineati al pensiero dominante. A volte arroganti, talora violenti, sono stati spesso dei bulimici del sesso. Ciò che li contraddistingue è l’eccesso. Eccesso di energia. Eccesso di creatività. Eccesso di talento. Sono dei vulcani di idee e di vitalità.
La loro forza, nel bene e purtroppo a volte nel male, è nella mancanza di limiti che li porta ad andare oltre. Per tale motivo non riescono ad adattarsi alla morale corrente, e per questo soffrono, si cacciano nei guai, a volte sfiorano la pazzia. Per lo stessa ragione vengono tanto amati quanto odiati. Caravaggio non fu un uomo morigerato, dai costumi irreprensibili, bensì un rissoso, un omicida, un galeotto, un evaso, andava a prostitute anche minorenni ragion per cui oggi verrebbe etichettato giustamente come un “maniaco” dedito a stravizi di ogni genere anche ignobili. Eppure quando guardiamo una sua opera, i nostri occhi non sono offuscati da alcun giudizio morale, ma brillano dinnanzi a tanta ed impareggiabile bellezza. Se dovessimo giudicare gli artisti con il metro dell’etica dovremmo bruciare i romanzi di Ernest Hemingway, simbolo mondiale della letteratura del ‘900. Lo scrittore statunitense fu un ubriacone e un adultero seriale che viveva d’istinto e seguiva sempre il desiderio. Per giunta morì suicida. Eppure il suo indiscutibile genio letterario, lo portò a scrivere alcuni dei capolavori considerati pietre miliari della Letteratura Americana. E solo per citarne uno tra i tanti, Savator Dalì fu definito da Picasso come un fuori bordo senza controllo e lui stesso si concepiva come un genio che poteva lasciarsi andare a qualsiasi pazzia.

geni
Ed ora arriviamo al tanto discusso Diego Armando Maradona a cui L’Ortica questa settimana ha dedicato la copertina, scelta che forse farà storcere il naso a qualche lettore. Sappiamo bene che il calciatore argentino ha condotto un’esistenza sopra le righe, guadagnandosi non poche antipatie e inimicizie, oltre che gravi problemi con la giustizia. Non si tratta né di beatificarlo né di infangarlo come in troppi hanno fatto e continuano a fare. Né di distinguere l’uomo dal calciatore: la persona è sempre una, nella sua interezza. Si tratta semplicemente, in primis, di esercitare la pietas nei confronti di un defunto (è una questione di civiltà) e al contempo di riconoscere e omaggiare quella che fu un’eccellenza ineguagliabile del calcio, che ha fatto non migliaia, non centinaia di migliaia, bensì milioni di persone. Non a caso Maradona, “pittore del pallone”, è stato definito dal presidente azzurro “come un Caravaggio inquieto a cui l’indomabilità e la sregolatezza si perdonano per la sua immensa grandezza”. Questa è la nuda e cruda verità: Diego fu sempre fuori da qualsiasi schema in campo e nella vita, fenomenale e al contempo ingovernabile. «… era i piedi e le mani del popolo» scrive Giampiero Timossi sul Manifesto. E aggiunge: «[…] Era arte e sostanza ed è un sostantivo quello che meglio racconta le avventure del più grande personaggio della storia del pallone, perché Diego Armando Maradona è e resta “popolo”. […] Maradona, certo, era (anche) vizi, non furbizie.
Per questo oggi, anche nel giorno della sua morte, qualcuno vuole prendere le distanze. L’ipocrisia è una pandemia che non troverà mai un vaccino e se anche arrivasse pochi avrebbero il coraggio di vaccinarsi».
Miriam Alborghetti