di Giovanni Zucconi
Mi ricordo che mio nonno, quando gli si presentava un ragazzo della sua zona, gli chiedeva sempre: “Ma tu, di chi sei figlio?”.
Questo per sottolineare come la conoscenza di una persona non poteva essere completa senza avere informazioni sulla paternità o, più in generale, sull’appartenenza ad una determinata famiglia. Oggi questa domanda non la sento fare più da un pezzo, almeno nello spirito che gli dava mio nonno. I tempi sono sicuramente cambiati, almeno in Italia, e sono sempre più lontani gli anni nei quali una buona discendenza era essenziale per poter sperare di ambire a determinate carriere sociali o politiche. La genealogia o l’araldica sono ormai discipline per storici, e sono spesso relegate su alcuni siti Internet che ti certificano, immancabilmente, che c’è un nobile tra i tuoi avi lontani. La voglia di sentirsi appartenenti ad una grande famiglia non è mai venuta meno, ma un tempo questa appartenenza non aveva un valore solo formale, e l’esibizione e la celebrazione dei propri antenati era anche uno strumento di potere e di accreditamento sociale. Potere vantare avi illustri era qualcosa di più di dire di appartenere ad una famiglia facoltosa dalla quale si erano ereditate notevoli proprietà. In certi periodi storici si poteva anche essere ricchissimi, ma non aver diritto, teoricamente, a nessun potere o carica di governo. Solo chi era nobile, e quindi aveva determinati avi, aveva il diritto di occupare cariche di potere. Non era solo la ricchezza che si passava di generazione in generazione, ma una specie di testimone invisibile che ti rendeva, per nascita, una persona superiore, e ti legittimava a governare su cose e persone. Per questo era importante raffigurare nella forma più visibile e concreta possibile la propria discendenza. Nella Roma antica, le famiglie che avevano propri esponenti che occupavano o avevano occupato delle cariche pubbliche, esibivano nell’atrio della propria casa, in appositi tabernacoli, la propria immagine e quella dei propri antenati. Queste immagini, inizialmente delle maschere di cera, si trasformarono nel tempo nei busti di marmo che ancora oggi ammiriamo. Oltre che essere esposte nei tabernacoli, esse venivano utilizzate nei funerali. Il feretro veniva preceduto da uomini “di statura e corporatura simili a quelle degli scomparsi che rappresentano” e che indossavano le maschere raffiguranti i volti degli avi del defunto. In questo modo veniva messa bene in vista la genealogia della famiglia, e resa pubblica l’importanza e il ruolo sociale della dinastia. Quanto era maggiore il numero di maschere che si potevano esporre, tanto più era tenuta in considerazione la famiglia. Questo consuetudine si è poi protratta, in forme diverse, nei secoli seguenti. Allo scopo di illustrare e testimoniare la propria nobile discendenza, le gallerie dei palazzi nobiliari erano pieni di busti di marmo e di dipinti raffiguranti i propri avi in pose altere. Tutti dovevano immediatamente percepire la grandezza e l’importanza delle persone appartenenti alla propria casata. Era una specie di certificato visivo di autorevolezza e di legittimazione ad esercitare il potere. Ma la rappresentazione più insolita della potenza della propria dinastia era sicuramente quella degli Inca. Nel loro caso non si limitavano a ed esporre un’immagine dipinta o scolpita del proprio avo regale, ma addirittura conservavano ed esponevano le mummie dei propri antenati. Nelle celebrazioni più importanti, l’imperatore inca si presentava davanti ai propri sudditi accompagnato dalle mummie, riccamente vestite, dei propri avi. Le coppie dei re e delle regine defunte venivano trasportate sedute su delle sfarzose portantine, abbigliate con degli splendidi abiti regali e con dei magnifici gioielli. Un cronista contemporaneo, Garsilaso della Vega, scrive: “…a destra e a sinistra dell’immagine del Sole, erano collocate le mummie degli Inca disposti secondo la loro antichità; e a vederli sembravano vivi. Erano tutti seduti su troni d’oro, sostenuti a loro volta da palchi d’oro…”. Venivano esibite al popolo delle mummie con il volto avvizzito, ma con il loro splendore regale ricordavano a tutti che il sovrano attuale discendeva da una gloriosa stirpe di imperatori. Doveva essere uno spettacolo suggestivo, dove l’autorevolezza del presente si dilatava nel tempo, amplificando visivamente il prestigio e l’autorità dell’imperatore. Tutti i sovrani si sono sempre dovuti accontentare di mostrare le immagini dei propri gloriosi antenati, ma i re inca facevano molto di più: ne mostravano i corpi abilmente conservati e regalmente vestiti. Queste ostentazione delle mummie dei propri avi avveniva, per esempio, durante un’incoronazione di un nuovo sovrano, o tutti gli anni, ad agosto, prima della stagione della semina. Quando l’Impero cadde sotto il dominio degli spagnoli, gli Inca tentarono disperatamente di salvare tutte le mummie, in quanto simboli e garanti dell’autorità imperiale. Li nascosero vicino a Cusco, ma gli spagnoli, dopo qualche anno, le ritrovarono, e consapevoli del loro valore simbolico, le requisirono e le seppellirono in un luogo segreto. Ad oggi, nonostante numerose campagne di ricerca, le mummie dei sovrani Inca non sono state ancora trovate e il loro destino è ancora ignoto.