di Emiliano Foglia
In questi giorni è salito alla ribalta il caso dello Stadio Flaminio, ormai fatiscente ed in totale abbandono.Il Comune di Roma ed il Coni in questi anni hanno fatto scaricabarile l’uno con l’altro sulla sorte della struttura progettata da Nervi.
Il “Flaminio” venne ristrutturato ed inaugurato nel 1959 ed è rimasto in attività con il rugby fino al 2011.
L’ex sindaco Marino lo scorso anno aveva dichiarato alla Rai: «In questo momento stiamo scrivendo un bando rivolto agli imprenditori privati nel settore dello sport e sono convinto che ci sarà chi accetterà di avere in affidamento un’opera così prestigiosa per restituirla alla sua antica bellezza e far sì che possa essere utilizzata anche da bambini e ragazzi che non hanno disponibilità economica per fare sport come scherma, nuoto, rugby o calcio». Peccato che pochi anni fa la stessa mobilitazione non venne fatta per il gemellino dello Stadio Flaminio, ovvero Il Velodromo dell’Eur.
Il Velodromo Olimpico di Roma venne inaugurato per i Giochi Olimpici del 1960.
Per la costruzione dell’impianto fu individuata l’area sudorientale dell’ Eur e, precisamente, il lotto compreso tra viale del Ciclismo, viale della Tecnica, viale dell’Oceano Pacifico e viale dei Primati Sportivi. Furono presentati vari progetti e, dopo la valutazione della commissione, fu scelto quello di Cesare Ligini, Dagoberto Ortensi e Silvano Ricci. La realizzazione strutturale dell’impianto fu curata dall’ingegnere Francesco Guidi.
Il progetto era caratterizzato dalla visione innovativa dell’opera: infatti, l’impianto sportivo fu ideato in modo da garantire agibilità e visibilità da ogni posto a sedere della tribuna. I progettisti, quindi, in quest’ottica, variarono l’andamento longitudinale delle gradinate in modo da mantenerlo, di fatto, sempre in linea con la pista e garantire la migliore visibilità del tracciato ciclistico. La tribuna, coperta sul lato di viale dell’Oceano Pacifico, fu costruita su un’intelaiatura di cemento armato, mentre le altre gradinate furono costruite su collinette artificiali di terra riportata; la tribuna centrale era coperta da una pensilina in alluminio. Il Velodromo fu costruito per le Olimpiadi di Roma ed è stato ufficialmente inaugurato il 30 aprile del 1960. L’impianto aveva una capienza di 17.660 spettatori suddivisa in tre ordini di posti: in piedi nelle curve ( molto inglese, molto vecchio calcio, molto parterre della vecchia Curva Nord ); seduti nella gradinata principale di calcestruzzo coperta da una pensilina metallica ( che ricordava quella dello Stadio Flaminio ) e seduti nella gradinata dei distinti.
Sulla sua pista si sono svolte le gare ciclistiche delle Olimpiadi del 1960, ma anche i Campionati del mondo del 1968 e, nel 1967, il belga Ferdinand Bracke stabilì il record dell’ora di ciclismo su pista all’aperto e a livello del mare in 48,09304 km. Nelle Olimpiadi del 1960, sul suo terreno di gioco si disputarono anche delle importanti gare del torneo di hockey su prato: come la finale del 9 settembre tra India e Pakistan, ma anche le semifinali tra Gran Bretagna ed India e Pakistan e Spagna. Ci giocò anche la nostra Nazionale quando sconfisse per 2-1 il Giappone.
Nei sui primi anni di vita è stato quindi utilizzato, fino poi al dissesto più totale, al completo abbandono. Quella del 1968 è stata, incredibilmente, l’ultima manifestazione che si è disputata con la presenza del pubblico.
Fin dalla fine degli anni sessanta l’area del velodromo venne giudicata instabile, sia per calcoli geologici dell’epoca, sia per il fatto che le tribune insistessero su riporti di terra; per tale ragione esse non ospitarono mai più pubblico dopo i citati campionati mondiali di ciclismo del 1968.Nel corso degli anni furono tentati, da parte del CONI, di concerto con l’Ente EUR e il Comune di Roma, diversi progetti di ristrutturazione e riqualificazione dell’impianto, con eventuali aggiunte di destinazione d’uso, in particolare spettacoli e congressi, ma senza alcun esito pratico.
Lo stato di abbandono e di degrado del Velodromo si protrasse dal 1968 alla fine degli anni ‘90 quando si cercò di trovare una soluzione per il velodromo. Da una parte l’Ente EUR proprietario del complesso sportivo propenso a riqualificare l’area con l’abbattimento della struttura a favore della costruzione della “Città dell’acqua” (un progetto mai partito), e dall’altra parte il comitato di quartiere ed esponenti di spicco della cultura romana a difesa del patrimonio del velodromo.
Dicevano gli studiosi a suo tempo: Il velodromo era un’ opera unica nel suo genere e culturalmente importante per la città. Un importante esempio di “land art” come si dice nel linguaggio urbanistico e non era vero che fosse una struttura fatiscente. Diceva l’ architetto Renato Nicolini, ex assessore capitolino alla Cultura: «All’ epoca della sua costruzione, era considerato il Velodromo più bello del mondo. Un orgoglio cittadino. Invece di smantellarlo poteva essere recuperato». Una squadra pro-Velodromo incontrò più volte l’Ente EUR e l’ assessore capitolino all’ Urbanistica, Roberto Morassut per salvare quel che restava del “Velodromo più bello del mondo”. Purtroppo non ci fu niente da fare, prevalse la volontà dell’ Ente EUR che decretò la fine della struttura a favore del progetto “Città dell’acqua”. Benché ci furono vari intoppi all’ abbattimento della struttura l 24 luglio 2008 il Velodromo del quartiere romano dell’Eur, venne fatto implodere. A distanza di quasi 10 anni l’ area rimane senza alcuna riqualificazione e forse sarebbe stato opportuno mantenere in vita il velodromo più bello del mondo. Ci auguriamo che lo stadio Flaminio non subisca tra qualche anno lo stesso trattamento magari per un improponibile acquapark o l’ennesimo centro commerciale romano all’interno del quartiere Flaminio. Vigilate gente, vigilate…