FINE DEL SECOLO AMERICANO?

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E’ un interrogativo che aveva già sollevato Joseph Nye, collega di Harvard, nel 2016, col suo omonimo saggio, e che odiernamente ripropongo, essendo stato lo scenario mondiale costellato, frattanto, da una pandemia e da due guerre, peraltro, ancora in corso.

Di Antonio CALICCHIO

Molti pensano che gli Stati Uniti, sfidati non solo dalla Cina, ma anche da altre potenze, non potranno più assolvere il munus di Stato-guida del mondo. Ed allora, ci si chiede: stiamo, quindi, già vivendo un’epoca post-americana?

Quale capacità di influenzare gli altri, il potere si presenta in modi diversificati per affermarsi: la coercizione (hard power); i finanziamenti, l’attrazione o la persuasione (soft power). Modi tutti egualmente significativi! Perciò, la superiorità economica, da sola, non basta. Lo status di superpotenza degli Stati Uniti può essere bensì compromesso da problematiche interne e dal boom economico della Cina, ma, come asseriva Nye, la loro potenza economico-militare e il loro soft power continuano a superare quelli degli avversari. Anche S. Giovanni Paolo II sosteneva che “fa parte della grandezza dell’ideale americano l’apertura agli altri popoli”, nel senso non di intromissione straniera, ma di interesse per il benessere dei nostri simili sull’intero pianeta.

Queste due posizioni, autorevoli e sagge ad un tempo, ossia quelle di S. Giovanni Paolo II e di Nye, postulano il contrasto al diffuso pessimismo in merito all’avvenire degli equilibri mondiali. Ed invero, il primo non mancava di esternare la sua convinzione che la condizione del mondo attuale rinvia, in gran parte, al modo in cui gli Stati Uniti esplicano la loro universale missione di servizio all’umanità: “gli Stati Uniti sono eminentemente idonei a questo compito globale di apertura agli altri, a motivo della loro stessa composizione interna come nazione: E pluribus unum!”, a motivo, cioè della circostanza che l’America è formata di molteplici radici etniche della terra, contenendo, nel suo seno, in ogni suo cittadino, una sensibilità per gli altri, per la loro cultura, per i loro bisogni, per le loro aspirazioni alla dignità e alla pace. Anzi, egli formulava un’autentica preghiera, acciocché “l’America non venga meno a se stessa e rinnovi la propria identità nella fedeltà ai principi morali e religiosi e nel servizio ad un mondo bisognoso di pace e di diritti umani, un mondo affamato di pane e assetato di giustizia e di amore fraterno”.

Il secondo, vale a dire Joseph Nye, demolisce, avviando argomentazioni critico-razionali, quel “credo” sull’inesorabile ed ineluttabile declino americano, sull’eclissi della potenza americana. Nondimeno, la rilevanza assunta dalla tematica non può prescindere dall’analizzare ciò che ci sta avvenendo intorno, giacché appare di una incontrovertibile evidenza che il destino di ciascuno è condizionato, nel bene o nel male, da quanto potrà accadere alla potenza americana. Si pensi, ad es., a come potrebbe completamente trasmutare la futura storia dell’Europa, qualora la pax americana, sotto il cui usbergo l’Europa, dopo il 1945, ha vissuto pace, benessere e stabilità democratica, crollasse. La stessa polarizzazione Est-Ovest andrebbe superata, nella prospettiva della cura dei rapporti Nord-Sud, facendo fronte ai bisogni essenziali di una immensa porzione di umanità, oltre che nel segno della pace, quale valore senza frontiere, appunto, Nord-Sud, Est-Ovest.

Esemplare risulta, al riguardo, la riflessione enunciata da Hannah Arendt, secondo la quale “ ‘l’apocalittica’ partita a scacchi fra le superpotenze, cioè fra coloro che si muovono sul piano più elevato della nostra civiltà, si gioca secondo la regola per cui ‘se uno dei due <<vince>> è la fine per entrambi’ “.

Basterebbero soltanto duecento delle cinquantamila bombe nucleari, che si stima esistano, per distruggere la maggior parte delle più grandi città del mondo. E’ urgente che i popoli non chiudano gli occhi su ciò che una guerra atomica può rappresentare per l’intera umanità. Donde una domanda: si può continuare su questa via? La risposta è chiara: la guerra è un serio pericolo e la pace è una necessità impellente.

In ogni tempo, i filosofi si sono interrogati circa la guerra e circa la pace: resta dolorosamente vivido il ricordo di quei celebri filosofi, come Hobbes, che hanno visto nell’uomo “un lupo per l’uomo”, e nella guerra una necessità storica. Tuttavia, è anche vero che non pochi di essi, fra cui Kant, hanno inteso gettare le fondamenta di una pace duratura e perpetua, prospettando solide basi teoretiche al diritto internazionale.

Del resto, il percorso volto a garantire la pace passa attraverso colloqui e negoziati, bilaterali o multilaterali. Però, alla loro origine occorre rinvenire e ricostruire una cifra fondamentale, senza cui essi, da soli, non daranno risultato, né tuteleranno la pace: occorre rinvenire e ricostruire la reciproca fiducia! Si tratta di una questione complessa, in quanto la fiducia non si acquisisce con la forza e non si consegue con le sole dichiarazioni, ma bisogna meritarla con azioni reali. “Pace agli uomini di buona volontà”: queste parole possono, e debbono, essere la chiave della grande causa della pace nel mondo. Pertanto, a mio avviso, a fronte delle conseguenze scientifiche previste come certe di una guerra nucleare, l’unica decisione valida, sul piano umano e morale, è costituita dalla riduzione degli armamenti nucleari, in attesa della loro futura totale eliminazione, contemporaneamente compiuta da tutte le Parti, in virtù di accordi formali, con l’obbligo di accettare controlli efficaci, in guisa tale da poter instaurare la pace e allontanare la minaccia di guerre, sulla base di taluni principi, elementari, ma fermi, cioè: gli affari debbono essere trattati con umanità, e non mediante la violenza; i conflitti debbono essere regolamentati mediante non la forza, ma ragionevoli negoziati; le opposizioni ideologiche debbono essere tra loro esaminate in un clima di confronto dialogico e di libero dibattito; gli interessi legittimi di determinati gruppi debbono tener presente tanto quelli degli altri gruppi, analogamente implicati, che le supreme esigenze del bene comune; il ricorso alle armi non deve essere considerato come lo strumento idoneo per la risoluzione  dei conflitti; i diritti umani inalienabili debbono essere salvaguardati in ogni circostanza. Ciascuno può ritrovare siffatti imprescrittibili principi di umanità nella sua coscienza, sicché divengano salde convinzioni presso i potenti e presso i deboli, impegnando tutte le azioni. E’ necessaria una paziente e lunga educazione ad ogni livello. Non vi è pace senza giustizia e senza libertà, senza una audace sollecitudine a promuovere l’una e l’altra: opus iustitiae pax, dal momento che quand’anche fossero estinte tutte le guerre, altre ne fiorirebbero inevitabilmente, ove l’ingiustizia e l’oppressione proseguissero a governare il mondo!

Ma, ora, con Donald Trump, che aveva, e ha, quale slogan “Make America great again”, è legittimo o meno, dunque, chiedersi se questa è la “Fine del secolo americano?”. Come di consueto in questo filone, i dati su Pil pro-capite, spesa per la difesa, sistema di alleanze, controllo delle risorse e della tecnologia non offrono risposte univoche. Nye perviene a questa sintesi: si ridurrà il distacco fra gli Usa e le altre potenze emergenti o emerse, ma, nei prossimi decenni, è difficile immaginare che vi sia un Paese o un’area che erediti il ruolo degli Stati Uniti o che faccia vacillare il loro primato archetipico. Se la politica viene intesa non solamente l’arte del possibile, ma piuttosto scienza ed arte del servizio, allora fare politica vuol dire impiegare tempo, intelligenza e fatica per venire incontro alle necessità della persona umana, in vista del raggiungimento del bene comune della società: i diritti del potere non possono essere qualificati in altra maniera che in riferimento al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo.

Quel bene comune, che l’autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato sol che tutti i cittadini siano sicuri dei loro diritti. Altrimenti si giunge al disfacimento della società, all’opposizione dei cittadini all’autorità ovvero ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza, di terrorismo, di cui hanno fornito una pluralità di esempi i totalitarismi del Novecento. E’ così che il principio dei diritti umani involge, nel profondo, la sfera della giustizia, e diviene coefficiente per la primaria verifica nella vita degli Organismi politici.

Queste considerazioni ricoprono estrema importanza per il domani che ci preoccupa: la ricerca della pace internazionale, della giustizia fra le nazioni e la cooperazione di tutti i popoli. “Il successo diplomatico, oggi, sarà la vittoria della verità sull’uomo”, ci rammenta, ancora una volta, il succitato S. Giovanni Paolo II. E uno Stato, in particolare lo Stato democratico americano, che sarà presieduto nuovamente da Trump, fondandosi sul libero consenso dei cittadini, potrà svolgere la sua essenziale funzione in ordine all’attuazione del bene comune, se – e solo se – a sostegno delle sue istituzioni politiche e del suo sistema giuridico vi sarà nei cittadini americani, ed in coloro che legittimamente li rappresentano – come il presidente degli Stati Uniti – una forte tensione morale ed il deciso intendimento di riconoscere e di difendere i più alti valori etici.

Ciò val quanto dire, in ultima analisi, che la politica si modula sicuramente sul programma sociale che sa elaborare e sull’efficacia e tempestività con cui riesce a tradurlo in atto; però, ai fini di una sua globale valutazione rimane cruciale conoscere quale pensiero sull’uomo la ispira, quale posto vi si attribuisce alla protezione dei suoi diritti e della sua dignità, alla sua libertà e responsabilità, nonché alle sue esigenze morali.

Buon lavoro Mr. President.