Il 22 aprile 1794 nasceva il filosofo di Konigsberg: limiti della ragione, conoscenza, teodicea, sono alcune delle grandi questioni da lui trattate.
ANTONIO CALICCHIO
Nato a Konigsberg, è stato il massimo esponente tedesco dell’Illuminismo, autore di una autentica “rivoluzione copernicana”, compiuta, col suo progetto speculativo, nelle opere filosofiche da lui realizzate.
Kant: Perché?
Perché ha demolito la metafisica dommatica, incarnata, a suo avviso, dalla sistematica di Wolff e della sua scuola, procedendo ad una critica della ragione, che determina le condizioni di possibilità e i limiti di validità delle capacità conoscitive dell’uomo.
Col suo pensiero si sono relazionati i maggiori rappresentanti dell’idealismo tedesco:Fichte, Schelling, Hegel, che a lui si sono – in modo diversificato – riferiti, sia pure per orientare la loro riflessione filosofica su itinerari differenti.
Rosmini – definito, dapprima, da Spaventa, poi, dal neoidealismo, il “Kant italiano” – ha affrontato la sua opera con spirito critico e senza pregiudiziali aprioristiche e ne ha dimostrato l’importanza, persino, per il pensiero redente.
Tuttavia, le concezioni di Kant, nel muovere, contrariamente all’idealismo, da una analisi delle caratteristiche e delle tematiche delle scienze naturali moderne, nel corpus formulato da Newton, si è prestata a vari dibattiti, in ordine allo sviluppo successivo delle scienze e della riflessione epistemologica.
L’influenza di Kant
Della vasta produzione, che accompagna le sue opere, e dell’altrettanto copiosabibliografia, mi limito a riportare un passo, desunto da Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?”, del 1784:
“L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità di cui egli stesso è responsabile. Minorità è la incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri. La responsabilità di tale minorità va attribuita all’uomo stesso, quando la sua causa non risiede in una carenza di intelletto, ma dipende dalla mancanza di determinazione e di coraggio nel servirsene, appunto, senza la guida di altri. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo stesso intelletto! E’ questo il motto dell’Illuminismo”.
Kant qualificava quest’ultimo, quindi, non tanto come una corrente culturale o un insieme di conquiste filosofiche, quanto piuttosto come un comportamento, una pratica di vita, un esercizio del pensiero, da cui l’umanità, se non intende abdicare a se stessa, non può esentarsi: dunque, l’Illuminismo non come teoresi, ma come prassi, azione, cioè come filoso-fare o fare-filosofia.
Sotto tale aspetto, l’Illuminismo, ben più che essere ciò che ha contrassegnato una epoca storica, è un compito illimitato, che conduce all’autonomia del pensiero, al governo di sé.
Le ricerche kantiane
In merito a ciò e alla onnipotenza pervasiva dei mezzi di comunicazione, Heidegger, in Essere e tempo, del 1927, così si esprimeva:
“Nei mezzi di comunicazione pubblici, nei servizi di informazione (i giornali), ognuno è come l’altro … In questo stato di irrilevanza e di indistinzione, il ‘Sì’ impersonale esercita la sua tipica dittatura … Il ‘Sì’ impersonale che non è propriamente nessuno di noi, ma tutti (non come somma, ma come modo di pensare) decreta il modo di essere nella quotidianità”.
L’influenza di Kant è rinvenibile in tutti i filosofi successivi e si espande dall’idealismo trascendentale di Fichte, Schelling e Hegel al neokantismo otto-novecentesco, sino a numerosi indirizzi della filosofia e teologia contemporanee, come quelli di Maréchal e Rahner, che hanno voluto adottarne il metodo.
Le ricerche kantiane più rilevanti del nostro tempo tendono a trascendere tutte le interpretazioni del kantismo – unilaterali, giacché si esauriscono nell’esporre solamente alcuni dei tratti che porta con sé – per ricostruire la dottrina kantiana nella molteplicità delle sue suggestioni, inscrivendola nel quadro culturale in cui è nato e progredito, nonché nell’ottica del pensiero occidentale moderno, come De Vleeschauwer, Martin.
Donde la pregnanza del modello kantiano, per il suo senso critico e la capacità di indagine, modello “che si mostra, altresì, a partire dall’inascoltato testo Per la pace perpetua, del 1795, di cui avremmo dovuto far tesoro e a cui la teologia, che si arrampica sugli specchi per giustificare i conflitti armati, dovrebbe guardare”, in quanto quelli di Kant “sono ideali più che teologici, che oserei chiamare semplicemente evangelici, oltreché razionali”, afferma Lorizio, nel commentare le parole di Kant: “I miles perpetuus (gli eserciti permanenti) debbono, col tempo, scomparire del tutto” e “Non debbono essere fatti debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello Stato”.