Filippo Conte racconta: “Scampai per miracolo alla deportazione”

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1883

Settanta anni fa Filippo Conte ed i suoi fratelli furono salvati dal campo di concentramento dal coraggio della madre Rosina
di Felicia Caggianelli

Ci sono testimonianze che debbono essere custodite gelosamente. Soprattutto in un momento storico nel quale nazionalismi esasperati, integralismo ed eccessivo protezionismo stanno attraversando il mondo occidentale. Anche una piccola goccia d’acqua può essere preziosa nel mare della tolleranza per evitare il dilagare di sentimenti xenofobi che, come la storia insegna, sovente sfociano in conseguenze tragiche per l’umanità. Pochi giorni fa si è celebrata la Giornata della memoria, eterno omaggio alle vittime dell’olocausto e della follia nazista che falciarono sei milioni di vite. Chi visse quei momenti non ha dimenticato ed ancora oggi, a distanza di 70 anni, ha gli occhi lucidi nel ricordare come solo la fortuna ed il coraggio di una madre gli evitarono di finire in un campo di concetramento per trovare morte sicura tra stenti e privazioni. Filippo Conte, noto imprenditore di Ladispoli, è tra coloro che hanno visto la follia nazista negli occhi, toccando con mano il fanatismo di un momento storico dove violenza e sopraffazione pervasero il mondo. Quello che vi raccontiamo, sperando che soprattutto le nuove generazioni possano fare tesoro di questa esperienza agghiacciante, è un episodio accaduto a Filippo Conte, la cui famiglia ha pagato un tributo altissimo alla pazzia nazista durante la seconda guerra mondiale.

“Sono nato a Minturno – racconta Conte – una bellissima cittadina che si affaccia sul mare e sulla città di Gaeta con il suo magnifico porto. La mia famiglia era composta da nostro padre Pietro Conte, da mamma Rosina e dai noi quattro figli Pietro, Benito, Umberto ed il sottoscritto. Quando arrivarono i tedeschi iniziarono subito i rastrellamenti, mio padre fu deportato in Germania e come tanti altri italiani non fece più ritorno. Non lo vidi mai più. Sono cresciuto sotto i bombardamenti, si sparava ad ogni angolo di strada, ricordo che mia madre con al braccio la fascia della Croce Rossa ripuliva le strade da morti e feriti. Quando nostra madre doveva uscire per procurarsi il cibo  o aiutare i feriti,  ci chiudeva dentro casa, ordinandooci di non farci sentire dai tedeschi. Che non avevano difficoltà a deportare anche giovanissimi.  Abitavamo davanti alla chiesa di San Pietro, nel centro di Minturno, una zona dove ogni giorno i nazisti rastrellavano italiani per i campi di lavoro.. Ci nascondevamo sotto i letti, praticamente senza respirare, terrorizzati dai passi delle truppe tedesche che sentivamo imperversare sulla piazza. Un giorno, che non dimenticherò mai, io ed i miei tre fratelli sentimmo urla e pianti che provenivano dalla piazza. Ci stringemmo l’uno all’altro, piangevamo dalla paura, tremavamo temendo l’arrivo dei nazisti. Che purtroppo fecero irruzione in casa nostra sfondando la porta e con modi bruschi ci caricarono a forza su un camion. Stavamo andando a morte sicura nei campi di concentramento. Pensai veramente che era finita per me ed i miei fratelli”.

Ma qualche volta il buon Dio decide di intervenire, regalando coraggio nei momenti più tragici. Come si è salvato?

“Fortunatamente – prosegue Filippo Conte con occhi lucidi – nostra madre stava soccorrendo dei feriti nella strada accanto. Qualcuno era riuscito ad avvertirla che i nazisti ci avevano caricato sui camion. Arrivò correndo come una forsennata, sventolando la fascia della Croce Rossa, si buttò addosso ad un soldato tedesco, gli scansò il mitra e ci fece scendere dal camion, urlando che eravamo bambini . Fu così convincente che i tedeschi non dissero nulla, nella confusione anche altri due ragazzini riuscirono a fuggire. Avevamo il cuore in gola, scappammo a casa, prendemmo pochi abiti e ci andammo a nascondere in una zona isolata di campagna dove viveva mia nonna. Di giorno restavamo nascosti sotto la paglia per paura che tornassero i tedeschi, di notte dormivamo nella legnaia sperando che questo incubo finisse. Si soffriva la fame, si viveva con la paura addosso, è una esperienza che ti porti dietro per tutta la vita. Una vita che ho potuto vivere grazie al grande coraggio di mia madre. Ecco perchè rabbridisco quando sento la parola guerra. Un vocabolo che deve essere cancellato. dal vocabolario. Parliamo solo di pace e non dimentichiamo mai gli orrori del passato. Un appello che rivolgo soprattutto ai giovani. Odio e guerra debbono essere sepolti per sempre. Ve lo dice chi ha visto la morte in faccia”.